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La Repubblica

Gusto, fantasia e solidarietà come mangiano gli italiani. Le tribù del cibo tra piacere e timori per gli ogm... L’indagine Demos-Coop dimostra la crescente consapevolezza dei consumatori per eco-solidale e biologico. L’insicurezza per l’origine degli alimenti va di pari passo con l’attenzione nelle scelte. Roma - Il cibo non è solo la routine quotidiana del nutrirsi. Si intreccia a un diffuso sentimento di insicurezza alimentare, a forme di impegno (il consumo critico), al piacere della socialità e del mangiar bene, allo star bene. Gli italiani vivono il rapporto con il cibo secondo queste diverse modalità.
E' quanto emerge dai risultati dell’indagine dell’Osservatorio sul Capitale sociale curata da Demos per Coop, che ha voluto approfondire i significati del consumo alimentare come fenomeno sociale. Il cibo è espressione di identità e di stile di vita. Circa 6 italiani su 10 vanno a mangiar fuori almeno una volta al mese. Il 26% ci va tutte le settimane (soprattutto i giovani fino a 34 anni). Una minoranza, il 15%, non ci va mai. Si mangia fuori per piacere(81%) e si va anzitutto in pizzeria (73%). Ma altrettanto spesso si va “fuori” restando dentro casa: a cena da amici (74%). Il che denota l’importanza della socialità legata al cibo.
Ma il cibo non è solo piacere. Si intreccia al problema dell’insicurezza alimentare che attraversa l’intera società italiana. È un sentimento che tocca più le donne, casalinghe, che fanno la spesa e cucinano. Tre italiani su 4 sono preoccupati per la sicurezza alimentare (73%). Pensano che il problema si aggraverà in futuro (73%) e che gli ogm non siano alimenti sicuri (74%). La paura spinge a essere consumatori esigenti. Attenti all’etichetta informativa (83%), al paese di provenienza dei prodotti (71%). Un italiano su 4 consuma abitualmente alimenti biologici; moderni surrogati del prodotto genuino, fatto in casa o coltivato per autoconsumo. L’insicurezza alimentare non si lega solo a strategie di autotutela, personale o famigliare, ma spinge anche verso una presa di responsabilità più ampia, che si riflette sul mercato e sulla società.
L’attenzione ai bilanci di sostenibilità delle imprese (35%), il commercio critico e i boicottaggi di prodotti (15%), l’equo e solidale (33%) sono maggiormente diffusi tra coloro che percepiscono in modo più grave il problema dell’insicurezza alimentare. Una paura che sfocia in un consumo impegnato e più vicino ai consumatori sinistra. L’osservatorio Demos-Coop, sulla base degli orientamenti e degli stili di consumo alimentare rilevati, ha individuato 5 diversi gruppi di italiani. Il più ampio è quello dei casalinghi, 33%. Rispetto alla media della popolazione sono persone più anziane (il 37% ha oltre 64 anni), il 62% sono donne, casalinghe (30%), hanno una bassa scolarizzazione (44%). Vivono il cibo come routine. Non vanno a mangiar fuori.
Quelli del fitness, 22%, si tengono in forma, mangiano bio, sono giovani (il 25% ha 15-24 anni), studenti, vanno in pizzeria, e mangiano spesso con gli amici. Fast food, 16%, in prevalenza sono persone che lavorano (operai, impiegati), 56% sono uomini, 40enni. Hanno un’alta istruzione nel 48% dei casi; costretti ad andar fuori per la pausa pranzo. Per piacere mangiano insieme agli amici (35%). Slow food, 15%, è il gruppo più raffinato. Metà sono giovani fino a 34 anni. Sono i più istruiti (61%). È un gruppo esigente. Usa le guide sui percorsi del gusto (33%), fa degustazioni (50%) e turismo enogastronomico (22%), mangia bio frequentemente. Ma non sono solo dei gourmet. Sono attenti alla dimensione etica del consumo e delle imprese.
Alta è la fiducia nelle associazioni dei consumatori (60%). Sono più orientati a sinistra. Infine i militanti 14%. Consumatori impegnati e preoccupati per l’insicurezza alimentare (il 63% si dice “molto” preoccupato). Sono in prevalenza donne (59%), 40enni, di sinistra ma anche cattolici praticanti. Comprano equo e solidale. Mangiano bio, praticano il consumo critico. Sono attenti al comportamento etico delle imprese e al ruolo delle associazioni di difesa dei consumatori.
(arretrato de La Repubblica del 29 ottobre 2006)
Autore: Luigi Ceccarini

La nuova era della sazietà
Ormai viviamo assediati dal “cibo”. Una sorta di riscatto, di nemesi, per un Paese che ha radici contadine. Ha conosciuto la fame e, comunque, ha praticato la sobrietà come virtù necessaria. Fino a cinquant’anni fa. Tanto che le generazioni più anziane, ma anche la mia (sono cinquantenne), ne serbano memoria. Oggi, invece, viviamo nell’epoca della sazietà. Ce ne accorgiamo, in particolare, d’autunno, la stagione del gusto. Del tartufo. La stagione delle guide “al mangiare e al bere bene”. Celebrata dal “Salone del Gusto” di Torino. Un evento di successo. Che consacra “l’era dell’uomo che mangia”. Caratterizzata dall’onnipresenza e dalla polisemia del cibo.
Dalla pluralità dei significati che gli vengono attribuiti. I risultati dell’Osservatorio sul capitale sociale di Demos-Coop, pubblicati oggi su “La Repubblica”, ne forniscono un repertorio ampio, che noi ci limitiamo a riproporre, per sommi capi.
1. Il cibo è occasione di socialità. Visto che il 60% degli italiani si reca a mangiare fuori casa una volta alla settimana (ma quasi il 30% almeno una volta alla settimana). Otto su dieci “per piacere”, piuttosto che per lavoro o per altri impegni. I giovani e i giovanissimi più degli altri. Impossibile, ormai, pensare di incontrarsi, “a prescindere” da esso. Di sera: davanti alla pizza (75%), oppure al ristorante (70%), in trattoria (35%). Lo stesso rito di “andare a trovare gli amici” è divenuto implausibile, senza una cena. E l’appuntamento a fine lavoro, a fine giornata, per scambiare una parola, un’idea, con i soliti noti (o ignoti, non importa): davanti all’aperitivo e a stuzzichini, che, alla fine, ti fanno passare la fame.
2. Il cibo come attività del tempo libero e come incentivo al turismo. Un italiano su quattro, nell’ultimo anno, ha partecipato a degustazioni, uno su dieci ha viaggiato seguendo itinerari enogastronomici. Tuttavia, è ampia la quota di persone che viaggia portando con sé, oltre alla guida turistica, quella ai ristoranti, alle osterie, alla gastronomia locale. Anzi: ormai non c’è guida turistica che non preveda una sezione di consigli su dove pranzare o cenare, acquistare prodotti della tradizione enogastronomica.
3. Il cibo come spettacolo e comunicazione. Visto che una persona su due afferma di aver seguito programmi televisivi dedicati alla cucina o al vino. Ogni giorno, a ogni ora, in ogni canale. Dovunque, persone che degustano, cucinano, provano ricette nuove, presentano piatti o prodotti raffinati, tradotti fedelmente dalla tradizione, oppure reinventati. Le trattorie, i ristoranti, i bar: hanno fornito spunto perfino a reality show. I cuochi e i gourmet. Tutti “chez Vespa”. A discutere con politici, attori e intellettuali di politica, spettacolo e cultura. Mentre i politici, gli attori e gli intellettuali discutono, con competenza, di ristoranti e di vini. E talora - come fece D’Alema, a “Porta a Porta” - cucinano, con sapienza.
4. Il cibo come cultura. Celebrato da specialisti riconosciuti come “intellettuali” tout-court. Al di là dei recinti di settore. Come Carlo Petrini, ispiratore del “mangiare lento”, lo “slow food”, marchio di un movimento socioculturale di valorizzazione delle cucine locali, oltre che di serie di iniziative (e di ristoranti) di successo. Oppure Davide Paolini, artefice della ri-scoperta dei “giacimenti enogastronomici” sparsi sul nostro territorio. Ma la qualità del cibo diventa elemento costituivo della qualità della vita e dell’ambiente. Alla base di manifestazioni come “Gli Stati generali della qualità”, che, annualmente, vengono convocati a Ravello, da Legambiente e da Realacci.
5. Il cibo come fattore di incertezza e di paura. Effetto perverso della tecnologia e della globalizzazione. Che possono generare “mostri”. Malattie dai nomi fanta-scientifici: il morbo della mucca pazza, l’influenza aviaria. Oppure concepiscono sistemi di produzione e prodotti, la cui definizione, il cui acronimo stesso, sono sufficienti a suscitare inquietudine. Come gli Ogm: Organismi geneticamente modificati. E, dunque, diversi, anomali, rispetto al “modello naturale”. Così, circa tre italiani su quattro, secondo l’Osservatorio Demos-Coop, si dicono preoccupati per la sicurezza degli alimenti e pensano che nel prossimo futuro le cose, sotto questo profilo, peggioreranno ulteriormente. La stessa quota (e, in larga misura, le stesse persone) che non si fida (no) degli Ogm. Anche da ciò, origina il mito del “supernaturale”, come lo definisce Giampaolo Fabris (lo studioso che, più degli altri, ha analizzato i cambiamenti del consumo alimentare). L’esaltazione del “biologico”, i cui prodotti sono in bella evidenza in ogni bottega, mini e ipermarket. Oltre che nei negozi “dedicati”. L’Osservatorio sul Capitale sociale sottolinea come un quarto degli italiani consumi alimenti biologici (o presunti tali) almeno una volta alla settimana.
6. Il cibo come impegno sociale. Vista la diffusione di comportamenti e di modelli di consumo che “usano” l’alimentazione per testimoniare valori di altruismo e solidarietà. E’, infatti, sempre più ampia la quota di persone che pratica la “spesa etica”, il consumo “critico”, si rifornisce, regolarmente, nel circuito del “commercio equo e solidale”, boicotta marchi e prodotti specifici. In parte, questi orientamenti riflettono il declino della partecipazione politica tradizionale, che si svolgeva in sedi organizzate, formali, lontane dall' esistenza e dall' esperienza degli individui. Sul cui solco si sono affermati modelli di impegno e di partecipazione “personale”, che coinvolgono la vita quotidiana. Si traducono in abitudine, atteggiamenti, gusti. Stili di vita. Non è un caso che questi comportamenti si colleghino a precisi riferimenti politici e di valore. Al mondo cattolico, nel caso delle pratiche solidali e filantropiche. Mentre le persone di sinistra concepiscono il cibo come “partecipazione” e al tempo stesso come “piacere”. D’altra parte, anche i “movimenti” e le esperienze che valorizzano le virtù del “gusto” hanno tradizione di sinistra. Il “Gambero Rosso” (rivista di culto, titolare di una rete satellitare di successo), ad esempio, nasce negli anni Ottanta come inserto de “Il Manifesto” (diretta, allora come ora, da Stefano Bonilli), mentre lo Slow Food origina dall’esperienza dell’Arcigola. Lo stesso Luigi Veronelli, maestro e pioniere della cultura enogastronomica, durante la sua lunga attività di editore, negli anni Cinquanta, accanto alla rivista “Il Gastronomo”, pubblicò i “Problemi del Socialismo”, diretta da Lelio Basso (di cui egli fu collaboratore). Socialismo e gastronomia. La ricerca della giustizia sociale e della felicità personale. Insieme. Il cibo. Come alimento ed elemento sociale. Come spettacolo e cultura. Piacere e preoccupazione. Passione e partecipazione. Comunica una società che si è “liberata” dal bisogno. E ha scoperto il “gusto” di vivere. Il valore del territorio e della tradizione. Il cibo. Tracima, dovunque, nella nostra vita; a ogni passo e a ogni ora. E ammicca, da ogni vetrina, ad ogni angolo e in ogni strada. Dagli schermi, dalle riviste, dai libri. Con un rischio: generare sazietà. Farci sprofondare nel ventre soffice di questa società pingue.
(arretrato de La Repubblica del 29 ottobre 2006)
Autore: Ilvo Diamanti

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