02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

La Stampa / Specchio

Aiuto, hanno taroccato il Barbera. Dai “Super Tuscan” al Brusello all’Amarone di Buenos Aires: i falsi hanno colpito anche le etichette “made in Italy”. E il Salone del Vino rilancia gli autoctoni … L’orizzonte si può cambiare a piacimento, dalle luci di Las Vegas o New York a quelle più decadenti di Kiev o Bangkok; il nome del ristorante di solito è Limoncello. Sole mio, Toscana, Roma, ma non mancano i Celentano o gli Italiano, dove Toto Cutugno è la colonna sonora inevitabile. Il menù è scritto in una specie di italiano e nella confusione non è difficile riconoscere i piatti più noti della nostra cucina. Lo stesso vale per i vini, dove denominazioni classiche a volte si alternano con stranezze come “Super tuscan”, “Piemonte strong”, “Chianterello”, “Barbera”, “Brusello”. Errori di traduzione? No. Tutto falso.
Il consumatore di fascia medio-bassa negli Stati Uniti o quello poco informato in Russia, in Ucraina, ma anche in Oriente, è convinto di mangiare italiano e invece gli può capitare di “gustare” una cena - dall’antipasto al dolce, passando per pizza e vino - che, con la nostra Penisola, non ha mai avuto a che fare. Racconta così, la storia può far sorridere e se si aggiunge che non di rado la disavventura capita anche gli italiani in vacanza all’estero colti da un improvviso raptus da mancanza di pizza, allora prende davvero forma di una barzelletta. ma se si guarda il problema da un punto di vista economico si capisce subito che se si mettesse un freno all’enogastropirateria (che colpisce molti paesi europei e anche qualche straniero in Italia) i fatturati dell’export nazionale avrebbero incrementi superiori al 50 per cento. Quindi deve apparire chiaro che le battaglie per la difesa delle denominazioni d’origine a Bruxelles e per la loro tutela mondiale in seno al Wto non sono scontri sulla forma e sulle etichette, ma guerre per la sopravvivenza di un comparto.
Una volta il problema era sottovalutato, l’italian style non si preoccupava dei mercati medio-bassi, puntava solo all’alta gamma; oggi, con la crisi, i conti devono tornare in tutte le fasce e il problema diventa dramma. La prima a lanciare l’allarme è stata Nomisma con una ricerca datata 2002; ora a cavalcare contro l’enopirateria è soprattutto la Coldiretti in sinergia con il Governo e in particolare con il Ministro Alemanno, che all’ultimo Vinitaly ha citato il caso dell’Amarone di Buenos Aires e ha dichiarato: «Non si possono violentare nomi intimamente legati ai nostri territori».
I dati diffusi dall’Italian Wine & Food Institute dimostrano che dopo la flessione dello scorso anno l’Italia non solo si è presa la leadership del mercato Usa per merito della crisi francese, ma ha anche incrementato la sua quota di mercato portandola al 31,4 per cento, contro il 22 della Francia e il 28 dell’Australia (che vende di più a costo più bassi). Ma la situazione sarebbe ancora migliore se il 50 per cento delle bottiglie «italiane» stappate negli Usa non fossero false. Sull’etichetta campeggia la scritta Sangiovese, Chianti, Barbera, Barolo, magari Rosé o il già citato Super piemontese: in piccolo nella retroetichetta è possibile leggere «prodotto in California», magari a Napa Vallet o Sonora Country, a volte con uve simili alle piemontesi, toscane o venete, in qualche altro caso con uve che poco hanno a che fare con le tradizioni italiane e che fanno arrivare in bottiglia liquidi misteriosi come il Caberlot o il Frascati doc imbottigliato in Danimarca.
I ristoranti importanti o le gastronomie di lusso come la newyorkese Dean & De Luca fanno quadrato contro l’enogastropirateria, ma le aziende italiane non hanno molti modi per difendersi:; fuori dall’Europa le armi sono poche e spuntate e l’Italia si attende risposte forti dal Wto e spera anche in una maggiore tutela da parte della commissione Ue guidata dal portoghese Barroso.
Si richiamo situazioni paradossali: l’Italia sogna di andare alla conquista della Cina con i suoi prodotti, ma potrebbe scoprire che dalle vigne cinesi arriveranno sul mercato internazionale milioni di bottiglie di nebbiolo, barbera, sangiovese, questa volta non taroccate, ma clonate dal vitigno italiano e adattate alle esigenze di quel territorio. E ad aiutare i nostri concorrenti, che hanno quasi sempre costi di produzione molto più bassi, ci si è messa pure la moda dei vini internazionalizzati, prodotti a forte rischio di omologazione e di copiatura. Una soluzione - che sarà il tema del Salone del Vino, in programma a Torino, dal 14 al 17 novembre - è sicuramente quella del rilancio degli autoctoni, della tipicità legata a un territorio.
Ma la forza dell’enologia italiana è frutto dei grandi vitigni-corazzata che vanno tutelati, come il nebbiolo o il sangiovese. Da tempo il presidente di Unione italiana vini, Ezio Rivella, predica che l’unica soluzione è quella di registrare i nomi dei vini come marchi d’impresa, che garantiscono la tutela del prodotto in mondi come gli Stati Uniti o l’Australia, dove non vengono riconosciute le denominazioni d’origine. E questa scelta è stata seguita da grandi e piccoli.
L’esempio dell’Haris di Gillardi
Il vino che, a forza di grappoli, stelle e bicchieri, ha reso famoso Giacolino Gillardi da Farigliano (Cuneo) è l’Haris, un rosso corposo prodotto con uve di Sirah (vitigno internazionale) sulle colline del Dolcetto di Dogliani. «Per me», dice Gillardi, «il rischio era altissimo. Il mio vino italiano, prodotto all’italiana, ma con il vitigno ninternazionale, quindi a forte rischio di copia anche perché il nome non è altro che la parola Sirah scritta al contrario. Per questo ne ho depositato l’etichetta come un marchio negli Stati Uniti, in Australia, in Oriente. Mi è costato caro, ma mi garantisce dalle imitazioni».
Il problema delle denominazioni italiane copiate in California ha preso le dimensioni di alcune grosse aziende, alcune nell’orbita dei produttori americani più importanti, e lo stesso sta avvenendo in una delle tre Nazioni top sul mercato del vino: l’Australia. Ma anche in Messico o in Russia chiunque può piantare una vigna di barbera e produrre un vino chiamato barbera. In Italia questo grande rosso ha una storia, una tradizione, una cultura, negli altri paesi può finire in bottiglia qualunque cosa senza tutele. Il rischio evidente è di intaccare l’immagine dell’originale con prodotti a prezzi più bassi e di qualità scadente. Al capitolo enopirateria anche sul fronte nazionale l’Italia continua a mantenere la guardia e ogni anno vengono sequestrate migliaia di bottiglie dall’etichettatura irregolare oppure di vino da tavola venduto come doc.
E se il vino è nel mirino dei pirati nazionali e internazionali lo stesso vale per il formaggio. Il Consorzio del parmigiano reggiano ha speso dal 1990 oltre un milione di euro in cause di tutela del marchio, mentre il cuneese Beppino Occelli, leader degli artigiani caseari, ha organizzato una task force per scovare - anche nei supermercati italiani - false dop perché anche dove le leggi ci sono a volte non è facile farle applicare e soprattutto tutelare il consumatore. La salutazione che l’Europa non vuole applicare è quella di una linea forte e dura a tutela dei propri marchi, perché teme sempre ripercussioni e accuse di protezionismo, ma per dare garanzie alla tradizione enogastronomia italiana, francese, portoghese, certe soluzioni potrebbero diventare indispensabili.
Dal 14 al 17 novembre, tutti al salone La 4ª edizione del Salone del Vino va in scena al Lingotto Fiere di Torino, dal 14 al 17 novembre e sarà accessibile al pubblico solo domenica dalle 10 alle 22 (ingresso: 10 euro). Mentre gli eno-appassionati avranno l’occasione unica di degustare tutti i vini esposti, nei rimanenti tre giorni gli operatori potranno concentrare la loro attenzione sul ritratto del mercato che sarà compiuto dall’Osservatorio del Salone del Vino e dal centro studi Promotor. Un’indagine che ha sondato enoteche, buyers ed eno-appassionati per monitorare prezzi e tendenze del gusto. Info: 011-6444111, www.salonedelvino.com
La parola magica è «qualità-prezzo», quella demonizzata «ricarico». Cantine piene di scaffali di ristoranti con un po’ troppa polvere sulle bottiglie più costose dimostrano che il caro euro e la vertiginosa corsa dei prezzi negli anni passati hanno costretto il mercato del vino a una brusca frenata. Raffalele Marino (Enoteca Marino Crotone inaugurata nel 1925), uno dei primi enotecari ad aprire al Sud, racconta di un mercato complicato: «Sono impegnato personalmente in azienda da trent’anni e non ho mai visto un simile momento di confusione nell’offerta. Il cliente vuole prezzi buoni e qualità, e di lì non si schioda.
Diversa è la posizione dei produttori, hanno le cantine piene e noi enotecari siamo bombardati da sconti, sembrano saldi di fine stagione o last minute per le vacanze. Il consumatore non capisce più niente e la moda di qualche anno fa ha fatto sì che il mercato si riempisse di persone non proprio competenti che si sono buttate in un settore che tirava solo per guadagnarci». Più o meno un anno fa Bruno Ceretto è stato il primo produttore a confessare il peccato: i vini hanno vissuto un aumento ingiustificato. Oggi la situazione non si può dire migliorata, ma tutti provano a correre ai ripari. I vignaioli con prezzi più vicini alla realtà, i consumatori ricercano chi offre qualità a costi accettabili, i ristoratori tagliano i ricarichi.
Vale la pena di spiegare che per ricarichi accettabili nel mondo della ristorazione italiana s’intende stare dentro al 100%, ovvero il doppio del costo dal produttore, ma per etichette sotto i dieci euro non è strano arrivare al 200 o al 300%, ma c’è pure chi acquista un buon dolcetto o un barbera a 6 euro e lo rivende a 30, cinque volte tanto. Guide, spazi sempre più ampi su giornali e televisioni hanno reso il consumatore informato, abituato al frequentare le enoteche se non, addirittura, a comprare direttamente in cantina. «Ci sono produttori e vini», dice Gigi Riva, titolare da vent’anni dell’Osteria della Chiocciola di Cuneo, «che sono diventati punti di riferimento di cui il consumatore ricorda nome, qualità e prezzo, quindi prenderlo in giro è pericoloso.
Un esempio su tutti: io tengo in certa il Blangé di Ceretto a 12,5 euro, e sovente i miei clienti mi raccontano di averlo visto in giro anche al doppio. Sono episodi che non aiutano l’immagine di un ristorante: è facile farsi etichettare come troppo cari e oggi equivale a una condanna. Io da anni tengo i ricarichi bassi, ma di certo non lavoro in perdita». La colpa è tutta dei ristoratori? Ci mancherebbe, ma a contenere i prezzi ci guadagnano anche gli incassi.
Lo dimostra una storia nata e cresciuta a Manforte, Langa cuneese, nel cuore di mitiche vigne da barolo come Confortino o Ginestra o Bussia. «Proprio un anno fa», spiega Gianfranco Massolino dell’osteria della posta, «ho voluto fare una prova: tagliare i ricarichi e vedere se mutava il rapporto con il cliente. Era un momento in cui i vini importanti si faticava a venderli. Ho diminuito i ricarichi e i vini hanno ricominciato ad andare, si è risolto il problema delle giacenze e anche per le casse le cose sono migliorate. Ora pratichiamo un ricarico del 40.-50%: una bottiglia pagata 30 euro, che con l’Iva diventano 36, la metto in carta a 53. Così riesco a vendere vini importanti». C’è che nei giorni della crisi vive il suo momento di gloria e si prepara a diventare il ristorante top di Milano. Carlo Cracco, nel suo Cracco Peck di via Victor Hugo, non ha certo problemi di tavoli vuoti: «Ma la crisi c’è. Io sono fortunato, in questo momento non la sento anche perché Milano ha un continuo ricambio e non patisce la congiuntura negativa. Mi rendo conto che altrove la situazione è diversa. Certo, le difficoltà aiutano a fare una scrematura, ma al cliente non bisogna dare solo mazzate: far pagare 2-300 euro per un pasto è pura follia». Anche sul vino, Cracco canta vittoria: noi vendiamo una media di 50 bottiglie al giorno ed è più facile piazzare quella da 7.000 euro che quella da 100. Mi spiego: la qualità assoluta non ha prezzo e chi la compra sa quello che cerca, cioè un’emozione unica. Le buone bottiglie sono tante e sulla fascia dei cento euro si cono stati aumenti non giustificati». Il consumatore modaiolo come quello di un ristorante top a Milano sceglie ancora in base alle guide? «No, la guida non basta più. Quando pensiamo alla nostra carta cerchiamo i produttori come persone affidabili a garanzia di qualità, non i punteggi che ottengono. E i clienti ci seguono. Anche per lo stelle, bicchieri e grappoli non sono più sufficienti».
La ricetta di Enrico Bernardo, il campione dei sommelier: "Il vino sì, ma rivalutiamo anche l’acqua"
Lui è il campione del mondo, per intenderci quello che è Roger Federer nel tennis o Michael Phelps nel nuovo. Ovvero, per il pianeta vino, un fenomeno, uno che ha assaggiato – anzi degustato – il primo calice di rosso a 17 anni e a 22 era già il numero uno in Europa. Dopo le sue performance Enrico Bernardo, milanese di Paterno Dugnano, è stato conteso dalle grandi catene alberghiere come un Totti qualunque, e alla fine è stato convinto a scegliere il ruolo di capo sommelier al ristorante Le Cinq di Parigi, la tavola a tre stelle dell’hotel Four Season Gorge V, per le maggiori guide l’albergo più prestigioso della capitale francese.
Capello corto, single per scelta e giovane età, Enrico Bernardo ha alzato a 27 anni il trofeo San Pellegrino di campione del mondo dei sommelier, un trionfo arrivato nella stessa Atene olimpica delle stelle dello sport. Abituato a consigliare rossi, bianchi e champagne a politici, attori e sportivi che «scendono» al Gorge V, non ha peli sulla lingua e dichiara che non ama i vini omologati e che le guide hanno fatto del bene alla notorietà dell’enologia, ma che ora c’è ne sono troppe e nella vana ricerca di punteggi altissimi i produttori hanno dimenticato che il vino è prima di tutto un piacere.
Signor Bernardo, tra guide, guru e giornali specializzati, del vino si è detto tutto. Un campione del mondo è in grado di offrirci un punto di vista nuovo?
«E’ una bella provocazione. Personalmente punterei sull’acqua».
Per i consumatori tradizionali, quelli per cui con l’acqua lo stomaco fa la ruggine, è quasi una bestemmia.
«Niente di più sbagliato. Pensate, l’acqua è la prima ad arrivare sul tavolo e l’ultima ad essere portata via. I vini cambiano e l’acqua resta, quindi trovare i perfetti abbinamenti tra piatto, acqua e vino diventa fondamentale».
Quindi l’acqua non è un accessorio?
«No, anzi. Ho introdotto nella mia metodologia di lavoro il Wine & Water tasting, proprio per dimostrare che sbagliare l’acqua può condizionare in modo negativo un intero pasto».
Per rilanciare il vino a pasto c’è bisogno dell’acqua?
«In un certo senso sì. Il vino non va trattato come una bevanda alcolica da consumare con leggerezza e neppure da bere per dissetarsi. Il vino è ambasciatore di una cultura, di un territorio, e va trattato con grande rispetto. Bisogna avvicinarsi a lui senza abusi. Anche per questo l’acqua lo può contemplare bene. Per esempio, il vino bianco preferisce un’acqua minerale naturale piatta perfetta anche per non alterare i gusti più delicati, mentre i rossi corposi preferiscono la frizzante, che comunque, in generale, è indicata per esaltare e rivitalizzante i gusti più decisi».
Ma scusi, signor campione del mondo, che cosa vuol dire fare il sommelier?
«Mettere insieme il talento di uno chef di cucina e la passione del produttore, guidare il cliente verso la piacevolezza di un pasto, accompagnato dal vino giusto».
Dopo la bolla speculativa degli anni passati
Ora, anche per le bottiglie, è tempo di saldi

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024