“La cultura porta la conoscenza. Dalla conoscenza si arriva alla coscienza e dalla coscienza si arriva al senso di responsabilità. E il senso di responsabilità, per un cuoco contemporaneo, significa utilizzare la tecnica al servizio della materia prima, e non la tecnica al servizio del proprio ego. Fare “cucina contemporanea”, oggi, vuol dire mettere l’etica a fianco dell’estetica. Senza guardare al passato con nostalgia, ma con la voglia di fare sempre meglio, di prendere da altre culture, di migliorare le conoscenze per salvaguardare sempre di più la materia prima, ovvero il lavoro di allevatori, contadini e pescatori”. Così, a WineNews, Massimo Bottura, il “re” di questa epoca della cucina italiana, tristellato Michelin, al vertice di tutte le guide italiane e il più osannato dalla critica internazionale.
“Io credo che il dovere di un cuoco contemporaneo - spiega Bottura - sia quello di guardare a quello che succede nel mondo. Oggi, per esempio, sprechiamo 1,3 bilioni di tonnellate di cibo ogni anno. E anche a partire da questa consapevolezza, dobbiamo saper creare le nuove tradizioni. Riscoprire, per esempio, come facevano i contadini di una volta, che il pane secco può diventare un passatello. Questo è il nostro compito, ed è quello che succederà all’Expo nel 2015. E quello con il quale, tutti, dovranno fare i conti. Nel momento che hai del pane secco - continua Bottura - tu devi immaginare, rendere visibile l’invisibile. Ho visto che anche Petrini ha preso spunto da quello che abbiamo fatto e che faremo come piatto simbolo all’Expo, che è “pane, latte e zucchero”: niente altro che il ricordo di quel momento nel quale stavamo andando a dormire da piccoli, e mamma ce lo portava”.
“Fare cucina italiana contemporanea oggi - continua lo chef dell’“Osteria Francescana” di Modena - vuol dire mettere l’etica a fianco dell’estetica. Utilizzare cioè tecniche all’avanguardia al servizio della materia prima, cercando di conoscere tutto e poi dimenticandolo: così si creano le nuove tradizioni. O, per lo meno, si crea una cucina italiana contemporanea che significa guardare il passato in una chiave critica e non nostalgica, per migliorare. Nel momento in cui mi perdo nella nostalgia, penso che i miei tortellini o le mie tagliatelle al ragù saranno sempre più buoni di quelli del futuro, e questo non è assolutamente vero. Dobbiamo, invece, analizzare i punti critici dei nostri piatti e delle nostre tradizioni, prendendo le cose migliori del passato, reinterpretandole per il futuro. Perché devo bollire della carne nell’acqua, visto che perdo vitamine, proteine e qualità organolettiche, me lo riuscite a spiegare? Perché mille anni di storia mi dicono che si fa così? Inutile allora, comprare carne da 50 euro al chilo della Granda, posso prenderne una qualunque. Perché se uso tecniche sbagliate, rovino e brucio il lavoro di agricoltori e contadini che sono degli eroi. E, invece, devo salvaguardarlo. Questo è il futuro della gastronomia italiana”.
Una gastronomia italiana che, come la società intera, è frutto di un processo di contaminazioni tra culture diverse sempre più complesso da gestire. “Bisogna farsi contaminare dalle diverse cucine in maniera saggia e non selvaggia - spiega Bottura - per non perdere le nostre tradizioni, ciò che i nonni ci hanno lasciato, ed evolvere in una cucina migliore. Oggi, nei nostri mercati, ci sono banchi di senegalesi, marocchini, di gente da tutto il mondo. Ed è logico che prima o poi uno zenzero venga a far parte di un piatto, o la manioca, e tante altre cose, che ora sono parte integrante di quello che è la nostra cucina di tutti i giorni. Al tempo stesso, devo salvaguardare il mio tortellino, devo pensare al miglior Parmigiano, al miglior prosciutto, per fare il miglior tortellino in assoluto, migliore di quello di mia mamma e di mia nonna. Così, nel momento in cui tu hai una contaminazione saggia, inglobi e incameri le altre culture, e diventi un uomo migliore che fa una cucina migliore”.
Bottura è tra i pochi grandissimi chef italiani che hanno aperto locali all’estero. Lui ad Istanbul, con Oscar Farinetti, ma lo hanno fatto anche Davide Scabin, a New York, e Massimiliano Alajmo, a Parigi, per esempio. E un’avventura straniera è anche nei piani di Gianfranco Vissani. Una “pattuglia” d’eccezione che, forse, ha aperto una strada importante per la consacrazione della grande cucina del Belpaese nel mondo, e che può diventare anche uno strumento importante, per quanto da solo non sufficiente, per il contrasto alla contraffazione e all’italian sounding. “È fondamentale: il discorso dell’italianità all’estero e del fine dining, è un veicolo che traina tutto l’agroalimentare di un Paese. Lo hanno capito, prima di tutti, per loro parte, i cuochi francesi, e lì lo ha capito anche lo Stato. Da noi naturalmente ... non sto neanche a scendere in polemica su questo tema. Ma penso a quello che diceva il presidente Usa, John Fitzgerald Kennedy: non pensare a quello che lo Stato può fare per te, ma a quello che puoi fare tu per lo Stato. Insieme ad Oscar Farinetti, abbiamo aperto a Istanbul, e proprio ieri i ragazzi del locale mi hanno chiamato dicendomi che non sapevano più dove mettere le persone, e di questo sono entusiasta. Sono entusiasta di riuscire a cucinare con dei prodotti italiani di altissima qualità e di fare una cucina italiana contemporanea che ti permette di poter far vedere cos’è l’Italia adesso. Perché la gente non la conosce”.
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