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Panorama / Economy

Un check-up per sei aree ... Dal Nord America alla Cina, passando per Europa dell’Est e Medio Oriente: ecco, nelle voci dei responsabili di ice, Simest e Camere di commercio, che cosa funziona per il nostro export. E quali incognite lo attendono… Le imprese non sono tutte uguali. E neppure i mercati. Conoscere le condizioni del Paese dove s’intende sbarcare, per un’azienda esportatrice o delocalizzatrice, non è più un vantaggio competitivo. Ma un’urgenza sempre più necessaria. Per questo Economy ha provato a stilare un check-up delle nostre esportazioni, raccogliendo il parere di chi, a vario titolo, si occupa di assistenza e promozione per conto delle nostre imprese su sei mercati chiave. A fianco di ogni area sono riportati i dati di crescita dell’export dal 2006 a oggi (il dato 2008 è relativo ai primi cinque mesi) e i vantaggi e gli svantaggi indicati dagli addetti ai lavori.
Per ora il contraccolpo non si è sentito: tra gennaio e maggio 2008 le esportazioni italiane negli stati Uniti e in Canada hanno registrato una crescita media del 12% rispetto allo stesso periodo del 2007, per un totale di quasi 12 miliardi di dollari. Se il trend si mantenesse inalterato per tutto l’anno, si tratterebbe della migliore performance delle nostre imprese dai tempi della svalutazione della lira. Difficilmente, però, le cose andranno così, perché questa volta a essere svalutato è proprio il dollaro.
Se al quadro si aggiunge il drastico calo dei consumi, è facile immaginare un prossimo rallentamento del nostro export sui mercati americano e canadese. “In realtà su alcuni fronti registriamo già una certa sofferenza” dice a Economy Aniello Musella, direttore dell’Ice di New York e coordinatore dei sei uffici nordamericani dell’Istituto per il commercio estero. “Le vendite di arredamento made in Italy, per esempio, hanno perso il 10,3%. La moda e il lusso hanno mantenuto gli stessi volumi, ma a causa del cambio sfavorevole hanno assottigliato i fatturati”. In controtendenza, invece, la meccanica e i macchinari industriali (il 14% in più) e l’alimentare (più 13%). Ma anche sulla vendita di cibo e vino si potrebbe fare di più: “Un po’ per pigrizia strategica e un po’ per legislazioni discutibili” osserva Alberto Comini, direttore della Camera di commercio italoamericana, “fuori dalle grandi città e dalla grande distribuzione siamo ancora poco presenti”.
Senza contare il giro d’affari delle imitazioni alimentari (il cosiddetto “italian sounding”), che ha un fatturato sei volte superiore a quello autenticamente italiano. I problemi, insomma, non mancano. Eppure il Nord America, con una quota superiore al 16%, è ancora il nostro primo mercato di riferimento. Come reagire? “Dobbiamo rendere più capillare la nostra presenza” teorizza Musella. “Già nel 2007, su 109 interventi finanziati dall’Ice, 41 sono stati a favore dei commercio al dettaglio: solo così si possono aumentare vendite e margini”.
Ma le imprese, oltre a chiedere assistenza, dovrebbero osare di più in prima persona: nel 2007 gli investimenti diretti dall’Italia agli Stati Uniti sono stati appena lo 0,6% del totale. Con il dollaro debole sarebbe auspicabile un po’ più di entusiasmo.

America del Sud
È tra le aree di sbocco più promettenti con tassi di crescita, anno su anno, a doppia cifra. Nel solo 2007 le esportazioni italiane in America del Sud hanno registrato un balzo del 24,9%, mentre nei primi 5 mesi dell’anno l’incremento si è attestato a quota 15,8%. Macchine utensili, attrezzature per autoveicoli e apparecchi meccanici vanno per la maggiore, ma anche i classici del made in Italy stanno prendendo piede. Soprattutto nelle aree più ricche. Una su tutte: lo Stato di San Paolo, in Brasile, che pur potendo contare su appena il 3% della superficie del Paese, produce il 40% del Pii carioca. “Qui tutto ciò che è italiano va a ruba” assicura a Economy Edoardo Pollastri, presidente della Camera di commercio italobrasiliana nonché numero uno di Assocamereestero. “E, quel che più conta, quelli che possono permetterselo sono sempre di più”.
In Brasile, come altrove in questo continente, il reddito pro capite si aggira sui 2.800-3 mila euro l’anno: poco per gli standard occidentali, ma niente male rispetto alla media cinese o indiana. “Peccato che la débacle argentina abbattutasi a cavallo del 2001 abbia tenuto alla larga dall’intera area i nostri imprenditori” interviene Pierluigi Venturini del dipartimento marketing e promozione di Simest. “Le opportunità andavano sfruttate di più e meglio, facendo le valutazioni opportune sulle aree a minor rischio”. I problemi ci sono ancora, per carità, come l’eccessiva burocratizzazione che, dice Pollastri, “fa impallidire persino quella italiana”; o il protezionismo della stragrande maggioranza dei governi che, nel tentativo di preservare l’emergente industria locale, innalza barriere all’ingresso spesso eccessive. Per Pier Andrea Chevallard, segretario generale della Camera di commercio di Milano, però, “non bisogna farsi scoraggiare” dice “perché quest’area è tra le poche ad aver resistito all’urto della congiuntura globale”. Almeno per ora.

Medio Oriente
Il caro-greggio annienta per il sistema Italia ogni velleità di bilancia commerciale attiva con i Paesi del Medio Oriente. Ma il petrolio è anche il motore di un’economia che gira a mille e trascina con sé consumi di lusso e investimenti infrastrutturali. Non è un caso, dunque, se nell’area del Golfo Persico e dei Paesi limitrofi le nostre vendite non sono mai andate così bene: nella prima parte del 2008 l’incremento complessivo dell’export italiano è stato del 35,5%, anche se naturalmente esistono differenze consistenti da un Paese all’altro. In Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi, per esempio, le quote sono ancora più alte e la punta di diamante, come spiega a Economy il direttore della sede Ice di Dubai Ferdinando Fiore, “è costituita da oreficeria, gioielleria, arredamento e illuminazione, abbigliamento e calzature”. Da non sottovalutare anche il peso dei beni intermedi: il boom immobiliare, infatti, sta facendo da apripista alle nostre esportazioni di macchine per l’edilizia e la pavimentazione, prodotti chimici, cavi e altre attrezzature complesse. Un trend, questo, che coinvolge anche Paesi come Siria, Giordania e Turchia, tutti oggetto di missioni estere da parte di Ice e governo italiano nel 2007.
Per quanto riguarda le nostre strutture di promozione, nel corso del 2007 Ice e Simest hanno rafforzato la presenza di risorse umane in alcune aree (come il Qatar, l’Oman, l’Iran e la stessa Turchia) dove la burocrazia eccessiva e la difficoltà di reperire partner commerciali affidabili rappresentano ancora un tallone d’Achille, soprattutto per le piccole imprese. L’altra difficoltà è rappresentata dal fatto che tutte le valute dell’area mediorientale sono agganciate al dollaro: “Qui i prezzi di vendita raramente costituiscono un problema” conclude ridendo Fiore. “Ma il dollaro debole un effetto negativo sui margini lo ha comunque, visto anche il peso dei dazi. E sul lungo periodo è possibile che anche i beni di consumo più pregiati comincino a soffrire”.

Europa Centro-Orientale
C’è un mercato dove da più di cinque anni l’export cresce in doppia cifra, addirittura del 42,2% nella prima parte del 2008: la Russia. Mosca e dintorni, infatti, sono una delle poche aree dove il boom dei consumi (soprattutto di fascia alta, più premianti per il made in Italy) non risente della crisi internazionale. Il dato più sorprendente, però, è il carattere anticiclico delle nostre vendite: “Nel 2007” dice a Economy il presidente della Camera di commercio italorussa Rosario Alessandrello “abbigliamento e arredo si sono piazzati al secondo e al terzo posto per quota export. Al primo, con il 32% del totale, ci sono i macchinari industriali per la lavorazione”.
A dare soddisfazione alle nostre imprese, in realtà, non è stata solo la Russia, ma l’intero blocco ex comunista e dei Balcani: un mercato da 50 milioni di consumatori, con un aumento medio di capacità di spesa del 5% annuo. A est dell’Unione europea, l’Italia è il settimo Paese per investimenti diretti, mentre in Russia è al quinto posto e in Romania al terzo. Per Croazia e Slovenia siamo i primi partner: “La vicinanza ci avvantaggia” dice a Economy Alessandro Liberatori, a capo dell’Ice di Zagabria: “Ma le nostre imprese sono state le prime ad approfittare delle aperture liberiste negli anni Novanta. E dopo essersi avvantaggiate delocalizzando, ora cavalcano la crescita puntando sui servizi”.
Dall’ll% della Polonia al 45% della Croazia, non c’è Paese dell’Europa centro-orientale (Russia a parte) dove le banche italiane non abbiano una buona quota di mercato: questo rappresenta un volano sia per l’export sia per la capacità d’intercettare sgravi e agevolazioni messi in campo dai governi. A parte le difficoltà di una logistica non ancora adeguata agli standard occidentali, forse è questa l’unica incognita seria che grava sul futuro delle nostre esportazioni: con il progressivo avvicinamento a Bruxelles, infatti, i sussidi sembrano destinati ad assottigliarsi, mentre i costi cresceranno.

India
Il 2007 è stato dedicato da Ice, ministero per il Commercio estero, Abi e Confindustria al mercato indiano ed è andato oltre ogni aspettativa. Le nostre esportazioni sono cresciute del 35,7% per oltre 4 miliardi di euro, con meccanica e agroalimentare in primo piano. E il 2008 non sembra essere da meno: tra gennaio e maggio la quota del made in Italy è aumentata di quasi il 37%. Numeri giustificati dal boom economico, ma anche dagli sforzi compiuti dal sistema Italia per raggiungere i 10 miliardi di vendite entro il 2010. “Un risultato possibile” ha ribadito in marzo l’ex ministro Emma Bo- nino, che però ha sottolineato che “sull’interscambio pesano ancora molte barriere, a partire da quelle tariffarie e burocratiche”.
Da quest’anno l’Ice, che nel Paese ha quattro sedi (cui si aggiunge un ufficio di corrispondenza nel vicino Bangladesh), coordina un piano di promozione focalizzato su otto settori: cinema, meccanica, made in Italy tradizionale, nuove tecnologie, infrastrutture, logistica, chimica e distribuzione. Al piano si affianca il progetto “Go-India”: una dotazione da 300 milioni di euro messi a disposizione da Abi, Sace e Simest per fornire un pacchetto di servizi finanziari, assicurativi e consulenziali alle piccole e medie imprese che puntano sull’India. Spesso, infatti, il primo impatto delle Pmi con questo mercato non è facile: “Le barriere sono molte” ammette Erika Di Giovancarlo, direttore della sede Ice di Mumbai. “La burocrazia è pesante e le infrastrutture non sono all’altezza, anche se negli ultimi anni si sono fatti grandi passi in avanti”.
Anche le vendite, inoltre, possono metterci anni a decollare. “Prendiamo l’abbigliamento” continua Di Giovancarlo. “Oggi il mercato comincia ad aprirsi, ma per troppo tempo le chiusure culturali e l’attitudine dei ricchi a comprare le griffe solo nei viaggi all’estero ha penalizzato gli investimenti italiani nel settore”. Che infatti hanno rallentato, come quelli destinati alle joint-venture e ai nuovi stabilimenti.

Cina
Sette uffici Ice, con una media annua di 500 interventi ciascuno; 650 imprese iscritte al registro della Camera di commercio italo-cinese (di cui 307 a Shanghai, la città con la presenza più alta); una ventina di uffici commerciali; 22 iniziative finanziate dalla Simest nel solo 2007. Sono i numeri della rete promozionale italiana in Cina: un’area dove, a discapito degli ostacoli normativi, commerciali e culturali, la nostra presenza è cresciuta negli ultimi cinque anni di oltre il 50%. Quasi tutte le aziende italiane passano per le nostre strutture di assistenza. “Il nostro supporto” dice a Economy Maurizio Forte, che è alla guida dell’Ice di Shanghai dal 2004, “consiste innanzitutto nel fornire informazioni di primo orientamento oppure servizi personalizzati come la ricerca di partner, l’organizzazione d’incontri di affari e l’assistenza per la risoluzione di controversie”.
Altro servizio significativo è la promozione, con un’ottantina di iniziative l’anno. Mentre il cambio sfavorevole con lo yuan è controbilanciato dal boom dei consumi (soprattutto nel lusso e nell’alimentare), per gli operatori il “ventre molle” di Pechino sta nella burocrazia e nelle debolezze della logistica. “I pochi intermediari locali mostrano limiti gestionali e scarsa volontà di investire nei marchi stranieri meno noti” osserva Forte. “Così, qui tutti i grandi gruppi curano in proprio la distribuzione. I piccoli, invece, faticano a penetrare il mercato”.
Da non sottovalutare nemmeno le difficoltà dovute alle certificazioni obbligatorie richieste dalla Cina per alcune categorie che riguardano da vicino il made in Italy, come i macchinari industriali e i cosmetici, e il peso della contraffazione. L’Ice di Shanghai ha reagito lanciando un desk specializzato nella consulenza in materia di marchi e brevetti e tutela legale, che si affianca ad altri progetti come il “Desk World Expo 2010” (sulle opportunità d’affari generate dall’Expo 2010 di Shanghai) e il “Desk Smi-Ice”, una task-force con Sistema Moda Italia avviata per agevolare le piccole e medie imprese dell’abbigliamento.

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