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Panorama / Economy

Il mercato Agro ... Alimentare: nel 2010 i ricavi sono tornati positivi e anche l’export è cresciuto. Ma Parmalat a parte, il cibo italiano è sotto attacco in tutto il mondo. Colpa delle imitazioni e di un sistema di tutele troppo frammentato. Mentre i francesi... Come se la passa il cibo italiano? La domanda non è banale visto il dibattito che, complice l’agenda di queste settimane (dalla querelle sull’etichettatura di origine al caso Parmalat, dall’allarme sui prezzi delle materie prime all’imminente apertura del Vinitaly), ha riportato al centro dell’attenzione l’agroalimentare di casa nostra. Cominciamo dai numeri. Quelli appena pubblicati da Federalimentare, l’associazione di categoria aderente a Confindustria, e relativi all’ultimo anno solare, mostrano uno scenario abbastanza altalenante. Da un lato l’industria alimentare italiana ha evidenziato, nel 2010, i primi incoraggianti segnali di ripresa, con una crescita dell’1,6% grazie soprattutto alla spinta propulsiva dell’export che ha chiuso l’anno registrando aumenti a 2 cifre (+10,5%). Dall’altro si registra la seconda flessione consecutiva dei consumi interni (-1,3% in quantità). Ma a preoccupare l’intero settore sono soprattutto due questioni: il costante aumento delle quotazioni delle materie prime alimentari che, dopo aver generato l’aumento dei prezzi alla produzione (+5% solo a gennaio), potrebbe avere ripercussioni anche sui prezzi finali, e dunque sulla redditività, e la crescita esponenziale dell’Italian Sounding Food, ossia gli alimenti e le bevande venduti all’estero sfruttando l’assonanza con i nostri marchi e le nostre specialità ma che di italiano hanno ben poco. Un fenomeno che secondo le stime Coldiretti vale 50 miliardi di euro l’anno, quasi il doppio delle nostre esportazioni autentiche (27,7 miliardi). La beffa è che tutto questo accade proprio nel momento in cui le certificazioni italiane toccano il loro massimo storico e il disegno di legge licenziato dal nostro Parlamento sull’etichettatura di origine dei cibi viene stoppato da Bruxelles. Mentre all’orizzonte si intravede l’ingresso di nuovi, e aggressivi competitor nel mercato delle Dop come la Cina e la graduale perdita di controllo in filiere-chiave come quella del lattiero-caseario, caso Parmalat docet, e dell’olio. Come uscirne? L’agroalimentare italiano è ancora il secondo comparto del Paese con 124 miliardi di fatturato e oltre 400 mila addetti (per un totale di quasi 7 mila imprese, nel 92% dei casi Pmi) e uno dei nostri principali reputational factor sui mercati stranieri, oltre a rappresentare una delle prime cinque voci di saldo attivo della bilancia commerciale. Le risposte non sono univoche. “Un’industria strategica come questa avrebbe bisogno di maggiori tutele in un momento in cui i margini si comprimono e occorre trovare nuovi spazi e nuove sinergie all’estero” dice a Panorama Economy Antonella Altavilla, senior manager e responsabile consumer & retail di Mbs Consulting. “Ma le contromisure adottate finora non si sono rivelate molto efficaci”.

Emblematica, da questo punto di vista, la situazione che ruota intorno a marchi di qualità, consorzi di tutela ed enti promozionali. Troppi e inefficaci secondo numerosi addetti ai lavori, e non da oggi. Il primo a lanciare l’allarme, già nel 2009, era stato Alberto Zilocchi, presidente dell’Associazione mantovana allevatori, una delle più importanti d’Italia. “Nel nostro Paese” disse “ci sono troppe denominazioni di qualità. In settori come carni, vini e caseario, questo atteggiamento rischia di creare più confusione che benefici”. A quello di Zilocchi, negli ultimi mesi, si sono affiancati altri pareri eccellenti come quello del direttore di Italia a tavola Alberto Lupini e dello chef stellato Emanuele Esposito, che hanno parlato di “sistema troppo frazionato”. Difficile dar loro torto. Dopo anni di proliferazione l’eccessiva presenza di Dop e Doc rischia di trasformarsi in un boomerang. In Italia le etichette attive sono ormai 550: di queste, 201 tutelano l’origine dei prodotti e le altre riguardano le loro caratteristiche o il tipo di lavorazione. Ma non è finita. Sono almeno 200 le denominazioni ancora in attesa di riconoscimento: ultimi arrivati la focaccia al formaggio di Recco, la marzolina ciociara e l’asparago bianco del Friuli. Gli alimenti e di vini protetti sfiorano le 700 unità: un record mondiale, se si considera che la Francia, il concorrente più vicino, è a quota 380. Ma il dato più eclatante è quello economico: oltralpe le certificazioni di qualità valgono il 40% del Pil alimentare. Mentre quelle italiane, nonostante l’inflazione di marchi registrati, raggiungono a stento il 16% del totale e il 20% dell’export.

“Il numero dei marchi di garanzia in Italia è probabilmente esagerato rispetto all’offerta e al consumo effettivi” ammette Altavilla. “Si tratta di un importante segnale di vitalità. Ma dal punto di vista strategico è una scelta infelice: la maggior parte di queste etichette non riesce a fare massa critica e non contribuisce come potrebbe alla promozione del made in Italy”. Quella promozione che, restando al confronto Italia-Francia, da noi esercitano in ordine sparso centinaia di consorzi, a volte in concorrenza tra loro, altre sovrapposti all’azione degli enti locali, dei ministeri competenti o di sigle come Ice, Buonitalia e Assocamerestero. A Parigi e dintorni, consorzi e organi politici delegano le funzioni di tutela a due soli enti: la Sopexa, partecipata al 31% dallo Stato e per il resto dalle categorie produttive, e l’Inao, che assegna le certificazioni di qualità. Oltre a proteggerle, con uno staff di 30 legali che girano il mondo alla ricerca di imitazioni. Risultato? I differenziali di prezzo che i produttori francesi riescono ad applicare ai loro prodotti venduti all’estero sono multipli dei nostri. “Mentre da noi” spiega Alessandro Olper, docente di economia agroalimentare all’Università Statale di Milano, “l’85% della produzione certificata riguarda solo un centinaio di categorie, le sole in grado di fare leva su volumi commerciali elevati e su un buon premium price: dal prosciutto di Parma al Chianti classico, dal Parmigiano reggiano alla mela del Trentino, che non a caso sono anche le più toccate dal fenomeno dell’Italian sounding, insieme a pasta e pizza”. Anche su questi due capisaldi della cucina italiana si concentrano molte delle critiche degli addetti ai lavori: “È incredibile che non esista un disciplinare che impedisca a miscele di qualsiasi tipo, spesso di grano tenero, di finire sugli scaffali stranieri come pasta italiana” osserva ancora Altavilla. “Sulla pizza l’esistenza di un disciplinare e di almeno una decina di consorzi a tutela non le hanno evitato di diventare uno dei prodotti più e peggio imitati, soprattutto nelle mete emergenti come l’Asia che invece dovrebbero farci da traino per il futuro”.

Ecco perché, favoriti dalle maglie larghe di una legislazione non sempre impeccabile, le etichette di tutela rischiano a volte di trasformarsi in semplici esche, come dimostra il caso di alcune aree del Piemonte che a fronte di pochi ettolitri di olio possono contare su una decina di indicazioni diverse, odi paesi vicini che coltivano lo stesso ortaggio o producono gli stessi insaccati con denominazioni differenti. “Una situazione figlia dei campanilismi” nota Olper. “Che penalizza i veri produttori di nicchia, costretti a scendere a patti con la grande distribuzione italiana e a non vedere neppure col cannocchiale quella straniera. Ma se il nostro intento è conquistare mercati emergenti come Cina, India e Brasile è dai supermercati che bisogna passare: con giuste strategie promozionali e prezzi soddisfacenti”.

Eppure le denominazioni (Dop e Igp in particolare) erano state introdotte per premiare e distinguere le realtà produttive tipiche dai prodotti di massa, completando un disegno di garanzia inaugurato proprio con i vini. “Lì ha funzionato: ma è merito dei produttori che hanno saputo fare squadra nel modo giusto, eliminando le mele marce alloro interno e ottenendo giusti compensi” osserva Altavilla. Ma se il volume del venduto italiano all’estero, non solo vinicolo, è aumentato così esponenzialmente, è merito anche della legge: “Denominazioni a parte” conferma Olper “quella europea tutela il vino anche come opera intellettuale, e quindi ne disciplina meglio metodi e tempi di lavorazione e qualità della materia prima. Tutto questo nel cibo è lasciato alla buona volontà delle aziende”. Il quadro normativo come strumento di argine per disonesti, imitatori o semplici furbetti dell’etichetta è in effetti un altro aspetto chiave. E non riguarda solo i mercati internazionali, ma anche quello comunitario e persino quello domestico. La contrazione della spesa orienta sempre di più il carrello su produzioni a minor valore aggiunto e la mancanza di una chiara etichettatura non consente al consumatore di scegliere davvero.
“Ma anche questo è il risultato della nostra scarsa capacità di fare lobby” continua Altavilla. “La vicenda del disegno di legge sull’etichettatura alimentare è emblematica”. L’episodio è già noto e ricalca in buona parte quanto avvenuto tra il 2009 e il 2010 con un altro provvedimento chiave per il made in Italy, il ddl Reguzzoni-Versace sul tessile: giudicato da Bruxelles troppo spinto e soprattutto in concorrenza con le norme Ue in materia di commercio, finì nel cassetto mentre a livello comunitario veniva adottata una normativa più blanda. Quasi la fotocopia di quel che è successo nel febbraio scorso, quando una legge italiana volta a indicare per ogni prodotto non solo il luogo di produzione e trasformazione ma anche quello di origine delle materie prime avrebbe potuto smascherare, per esempio, i ragù confezionati con concentrato di pomodoro cinese o gli oli e i succhi a base di olive e arance in arrivo dalla Tunisia. Niente di illegale, per carità: ma avrebbe aiutato i consumatori a orientarsi meglio tra le diverse proposte. La legge è stata rispedita al mittente, con la scusa che Bruxelles ne sta approntando una sullo stesso tema (la quale però conterrà al massimo l’indicazione di “lavorazione prevalente”) e il sospetto che non a tutti i big player dell’alimentare nostrano sia dispiaciuto. “Non sono convinto che le principali industrie italiane del settore del formaggio, dei salumi o della pasta siano veramente favorevoli alla tracciabilità integrale dei prodotti, né che si indaghi sulla provenienza della materia prima che utilizzano” ha spiegato il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla contraffazione, Giovanni Fava, sottolineando anche che “occorre indagare di più su questa zona grigia”. Stessi dubbi espressi nei giorni scorsi, con toni ancora più preoccupati, da Coldiretti e Confagricoltura. Il nostro alimentare, insomma, se la passa (ancora) abbastanza bene. Chi sta a valle della filiera (forse) un po’ meno. Chi sta Oltralpe (probabilmente) invece se ride. Parmalat docet.

Vini e spumanti

Alimenti tutelati 220

Consorzi ed enti di tutela 400

Fatturato imitazioni 3,8 miliardi

Prodotti garantiti

Italia:

349 Doc - Docg

126 Dop

75 Igt Igp


Francia:

249 Ao

101 Aop

I prodotti più imitati. La classifica dei cibi italiani più colpiti dall’Italian sounding in percentuale sui volumi in commercio... ...vini 5,4%...

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