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QUELLO DELL’ALTO GRADO ALCOLICO DEL VINO È DA TEMPO UN GRANDE TEMA SU CUI RIFLETTERE E, ALMENO PER I MUTAMENTI CLIMATICI, SEMBRA DESTINATO A CRESCERE. E SE NON PIACE L’IDEA DI DEALCOLIZZARLO IN CANTINA, C’È CHI STUDIA SOLUZIONI IN VIGNA AL PROBLEMA

Quello dell’alto grado alcolico è da tempo un problema, o meglio un grande tema su cui riflettere. Grado alcolico che, almeno per i mutamenti climatici, sembra destinato a crescere, ed è qui che entra in gioco la tecnologia, in grado di abbassare i gradi alcolici del 20% senza intaccare la qualità aromatica del vino stesso, senza dimenticare le pratiche in vigna, che permettono di arginare le impennate degli zuccheri (e quindi il conseguente aumento del grado) meglio di quanto non faccia la tecnologia utilizzata in cantina.

Il tema della dealcolizzazione è stato al centro del convegno “L’insostituibile ruolo sensoriale dell’etanolo nel vino e il problema della de-alcolizzazione”, organizzato dal Seminario Permanente Luigi Veronelli, cui ha preso parte il professor Luigi Moio, docente di enologia all’Università di Napoli e presidente della Commissione Enologica Oiv (Organisation internationale de la vigne et du vin). Soprattutto dietro l’interessata spinta delle viticolture emergenti intenzionate a produrre vini a contenuto alcolico pari a zero, Mojo ha evidenziato come le analisi sensoriali effettuate da un esperto panel di degustatori, abbiano mostrato chiaramente che la de-alcolizzazione dei vini sopra al 20% diminuisca tutte le sensazioni fruttate, mature e dolci, mentre aumenta per contro i più spiacevoli gusti amari ed astringenti. Ma attenzione a non fare di tutta l’erba un fascio: stanno nascendo vin a bassa gradazione alcolica, attraverso pratiche vinicole ed enologiche mirate, tra cui molti vini a circa 10 gradi, per ora con risultati qualitativi quasi sempre modesti, ma è facile prevedere che qualche passo in avanti sia ancora possibile farlo. Decisamente squilibrati, invece, i vini de-alcolati - secondo il Seminario Permanente Luigi Veronelli, che si è preoccupato, con i suoi soci, di degustare questi vini - qualora si superi una riduzione di 3-4 gradi, mentre sono dolorosamente tragiche le bevande a tasso alcolico di 0,3 o 0,5, prodotti davvero imbevibili e con gusti del tutto estranei a quelli del vino; di qualsiasi vino da qualsiasi parte del mondo. “Se è proprio necessario - è la conclusione del Seminario Veronelli - beviamo piuttosto un bicchiere in meno, ma beviamo solo i nostri grandi vini di ottima qualità, senza trucchi e senza inganni”.

Ma dalla parte di chi produce, in ogni caso, la questione non può essere accantonata. E se proprio la soluzione di de-alcolare il vino in cantina non sembra la migliore, la ricerca da anni cerca soluzioni alternative a partire dal vigneto. Come ha segnalato a Winenews il professor Cesare Intrieri del Dipartimento di Colture Arboree dell’Università di Bologna.

“Una possibile risposta può derivare dalle attuali conoscenze sulle modifiche comportamentali delle viti ad uva da vino quando sottoposte a manipolazioni agronomiche di vario tipo. Su tali basi il gruppo di viticoltura dell’Università di Bologna, che da tempo lavora sulla vitis vinifera, ha iniziato - scrive Intrieri - a considerare quali tecniche potrebbero essere utili per “riallineare” i processi dell’accumulo zuccherino a quelli della “maturazione fenolica”. Poiché oggi sono ben conosciuti gli effetti fondamentali di alcune modalità di gestione del vigneto, proprio alcune di queste modalità potrebbero trovare una nuova applicazione per recuperare un buon equilibrio delle uve a fronte degli incrementi termici. Il metodo più immediato per rallentare la maturazione potrebbe semplicemente consistere nell’incrementare la produzione per ceppo aumentando il carico di gemme o riducendo l’entità del diradamento, ma in molti casi questi interventi sarebbero in contrasto con le norme che limitano le rese in molti disciplinari. In alternativa all’aumento delle rese si può peraltro ricorrere ad altri interventi colturali per prolungare il ciclo produttivo. Alcuni di essi possono derivare proprio dalle conoscenze fisiologiche acquisite nel recente passato, le cui applicazioni erano destinate all’opposto obbiettivo di incrementare il grado zuccherino dell’uva. Per quest’ultimo fine è stato infatti più volte dimostrato l’effetto negativo della drastica cimatura dei germogli (Solari et al., 1988), in quanto la superficie fogliare attiva deve essere mantenuta in un rapporto ottimale con la produzione pendente (tra 1,2 e1,5 m2 per kg di uva). Tale indicazione è emersa in modo significativo da numerosi lavori sperimentali (Intrieri e Filippetti, 2000; Filippetti et al., 2001) nei quali è stato messo in evidenza che il grado glucometrico finale del succo è positivamente correlato con l’entità della superficie fogliare direttamente “esposta” alla luce nelle fasi cruciali della maturazione. L’effetto negativo di cimature corte sul trasferimento dei carboidrati dalle foglie alle bacche è stato indirettamente provato anche da altre ricerche, che hanno dimostrato come la capacità assimilativa in toto di una vite sia condizionata, oltre che da fattori esogeni (geometria della chioma, intensità dell’ombreggiamento), anche da molti fattori endogeni, tra i quali è importante l’età media della popolazione fogliare (Poni e Intrieri, 2001). Le ricerche condotte su foglie singole in crescita hanno infatti messo in evidenza che la loro massima capacità fotosintetica viene raggiunta al termine della espansione della lamina (30-35 giorni di età). Pertanto, all’invaiatura in poi devono essere evitati tagli eccessivamente corti per non compromettere la maturazione, conservando integra la zona del germoglio con le foglie più funzionali, generalmente localizzata all’altezza del ventesimo-venticinquesimo nodo (Intrieri et al.,1992; Poni et al.,1992; Silvestroni et al., 1994). In tale periodo le foglie sui nodi di ordine inferiore sono già in fase di senescenza e presentano una fotosintesi ridotta e progressivamente decrescente”.

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