Raddoppiare il valore dell’export dell’agroalimentare italiano è un obiettivo possibile? Sì, puntando sull’unità e su un marchio unico, che faccia da ombrello all’intera produzione del Belpaese. Almeno così la pensano i protagonisti del wine & food, dal “WineWorld Economic Forum” nel “Merano WineFestival” (di scena da oggi al 10 novembre a Merano, www.meranowinefestival.com), nella tavola rotonda “La qualità e l’immagine premiano l’export”.
Tra i protagonisti, moderati da Giacomo Mojoli, docente del Politecnico di Milano, il patron di Eataly Oscar Farinetti, che ha sottolineato come “migliorare le vendite all’estero vuol dire principalmente creare lavoro in Italia. Vogliamo raddoppiare i numeri dell’export, così come quelli dei turisti in Italia. Possiamo farlo, e bene. In Cina ci sono 1.400 negozi di Auchan, e noi ci troviamo a competere senza neanche un punto vendita italiano: senza retail non andiamo da nessuna parte, e gli altri sono tutti davanti a noi. Ci vorrà almeno una decina di anni per colmare il gap, ma per far prima dobbiamo piazzare i prodotti italiani dappertutto, possiamo farlo, ne abbiamo le potenzialità, dobbiamo tirare su, nel vino, il prezzo medio, come hanno fatto i francesi. Smettiamo di essere parcellizzati e corporativi - spiega Farinetti - ci vogliono meno rappresentanze e più unità; dobbiamo fermarci e andare a parlare d’Italia. Sembra difficile, troppa biodiversità, una fortuna enorme, meravigliosa, da cui sono nate centinaia di denominazioni: una cosa bellissima, ma che non ci porta ad essere competitivi. Dobbiamo portare in primo piano un’altra cosa: una struttura nazionale che faccia il lavoro oggi delegato alle Regioni. Ci vuole quindi un marchio unico, che potremmo chiamare “Umi - Unico Marchio Italia”, che diventi un tormentone. Abbiamo dei testimonial unici e gratuiti, da Colombo a Dante. Partendo dagli Usa, anzi, da Manhattan, il centro del mondo odierno. Basta carrozzoni, ci vuole una cosa snella, un disciplinare condiviso da tutti, accettiamo dei compromessi, e che sia su base volontaria. Poi, le certificazioni Igp e Dop continuano ad esistere, subito dopo. Per me il design del marchio deve essere figlio di un concorso di giovani designer, che venga presentato, magari, all’Expo 2015, nel padiglione che accoglie le denominazioni, il primo giorno. Infine, bisogna che il sito “Italia.it” funzioni”.
Per Mario Fregoni, presidente onorario Oiv - Organisation Internationale de la Vigne e du Vin, “l’idea di raddoppiar le esportazioni del vino è importante, ma bisogna capire se si parla di volumi o valori. Nel primo caso, semplicemente non è possibile, vorrebbe dire non berne nemmeno una goccia in Italia. Raddoppiare, o comunque aumentare l’export enoico ci pone di fronte alle dinamiche mondiali, degli ultimi decenni: la viticultura ha perso 2,5 milioni di ettari di vigneto nel mondo, quasi tutti in Europa, per andare nei Nuovi Continenti, dove andrà anche il consumo. Se pensiamo alla nuova viticultura, dobbiamo riflettere sui gusti dei nuovi popoli: i vini molto strutturati saranno difficili da esportare, quelli più verticali, invece, sono i vini del futuro, ma non si riescono a fare dappertutto. Dobbiamo rivedere il nostro stile produttivo, virando verso uno stile internazionale. Risulta poi - continua Fregoni - che la produzione mondiale sta decrescendo, eppure non abbiamo vino a sufficienza, nonostante i consumi, pur spostandosi, sono costanti da anni. È vero che la fortuna dell’Italia è all’estero, ma dobbiamo organizzarci. In Francia lo Stato è meglio organizzato, in ogni ambasciata c’è un enologo che si occupa dell’export. L’unica ancora per crescere è quella della denominazione e della difesa del terroir, unica garanzia per il nostro export, ma riguarda solo il 50% delle nostre produzioni. Ma noi non abbiamo aziende enormi che fanno milioni di bottiglie di vino monovarietale e margini enormi, e allora dobbiamo imparare a valorizzare la nostra storia ed i nostri terroir, anche nel caso delle piccole aziende fuori dalle denominazioni, perché non dobbiamo buttare via ciò che abbiamo creato nei secoli, sarebbe un tradimento per i viticultori: bisogna difendere - conclude Fregoni - la nostra biodiversità, scegliendo i vini da esportare”.
Lamberto Vallarino Gancia della Segreteria Tecnica del Commissario Generale di Sezione per il Padiglione Italia Expo 2015, “l’Expo è come un vigneto di 100 ettari con dentro 147 Paesi: io credo che noi dobbiamo saper vendere all’estero ciò che, in fin dei conti, sappiamo fare, e molto bene. Expo è un momento di conoscenza, perché il cinese medio non sa niente del nostro Paese, dobbiamo farci conoscere. Si parte, simbolicamente, dal vivaio, ossia dalla vita, per svilupparsi in 4 rami: il saper fare, che ha reso grandi gli italiani fino all’800, che porterà la gente attraverso tutto ciò che l’Italia sa fare; poi ci sarà la bellezza, che fa dell’Italia il più grande patrimonio artisti come paesaggistico del mondo; quindi il limite, che ci porta a farci del male, come la velocità; e poi il futuro: a Expo ci saranno start up ed innovazioni, perché il futuro è dei giovani, e lo dimostra l’ottimismo delle nuove generazioni rispetto all’Expo stesso. Dobbiamo mettere da parte i campanili adesso”.
“Il protagonista deve essere il cibo, e affinché si possa considerare italiano deve nascere nei campi italiani. Abbiamo aziende piccole, ma dal grande valore aggiunto, che può essere trasferito lungo tutta la filiera del cibo, basti pensare che con Campagna Amica sono nati 10.000 posti di lavoro. Ma non basta, per andare fuori dobbiamo dare una risposta a tutti, non solo al 15% coinvolto oggi. Dobbiamo - commenta Roberto Moncalvo, presidente Coldiretti - dare il giusto valore alle cose, e portare i nostri prodotti all’estero, riuscendo a portarcene a sufficienza. Dobbiamo partire dai 33 miliardi di oggi e puntare a 50, sfruttando l’Expo e la leve legislativa dello Sblocca Italia. L’opportunità è enorme, e noi siamo pronti a sfruttarla, ci sono numeri enormi e di cibo si parla tantissimo. Ci vuole una promozione semplice ed efficace, come sistema Paese. L’unico elemento importante - conclude Moncalvo - è l’autenticità, perché nessuno vuole farsi prendere in giro, come racconta la storia dell’olio italiano falso in Usa raccontata dal “New York Times”. La patente di italianità deve essere istituzionale, andrà rispettata, e bisogna lavorare per avere, in futuro, la necessità di dover rimettere in produzione ogni ettaro coltivabile”.
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