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Allegrini 2024

Sette / Corriere Dela Sera

Quando il vino è un affare di (due) donne ... Questa è una storia di donne. Di una bambina che giocava nei saloni e nei giardini di una villa, grande quasi come un castello:
condivideva le prime Barbie con l’amichetta del cuore e mai si sarebbe immaginate di tornare lì, anni dopo, da proprietaria a disporre restauri e abbellimenti.
E prima, molti anni prima, di un’altra donna, una sposa capace di raddrizzare un po’ il marito vispo e già sazio della posizione raggiunta, lei, invece, volitiva e pugnace, decisa a pilotare la loro piccola azienda agricola verso una dimensione diversa, commercialmente davvero importante. Ed è anche la storia parallela di come un vino considerato quasi reietto, poco più di un prodotto di scarto, possa diventare un principe nella corte enologica. Siamo in Valpolicella, tra Verona e il Lago di Garda, coi monti Lessini che fanno da confine a nord. In realtà, una di tre valli parallele marcate dai “progni”, come in dialetto si chiamano i corsi d’acqua a carattere torrentizio. Zona vinicola. Lo indica già il nome: Val-Poll-Cellae, cioè la valle delle molte cantine. Zona di due vini, in origine: valpolicella e recioto, conosciuto fin dai tempi dei romani come acinatico. il primo ottenuto col sistema abituale delle uve vendemmiate e pressate. il secondo (nome derivato dalle “rece”, cioè le “ali dei grappoli”) si ottiene con una tecnica particolare: i grappoli selezionati sono raccolti tra fine settembre e inizio d’ottobre, vengono riposti in cassette e tenuti ad appassire in spazi ben ventilati, 100-120 giorni di quello che si chiama “letargo attivo”. Una variante, chiamata amarone, si creava quando le uve fermentavano completamente, con la trasformazione quasi totale degli zuccheri in alcol: un vino non dolce, considerato, al tempo, quasi un incidente di percorso da usare, semmai, come digestivo.
Storia antIch1sskia. La tecnica per i recioto era antica, descritta già, nel VI secolo d.C., in una lettera del ministro di Teodorico, Cassiodoro: “Vogliam riferire quanto particolare sia il modo di farlo. Scelta nell’Autunno l’uva dalle vite delle domestiche pergole, sospendesi rivoltata, conservasi nei vasi suoi, e negli ordinari repositori si custodisce. S’indura nel tempo, non si liquida, trasudando allora gli insulsi umori, soavemente addolciscesi. Tirasi fino al mese di Decembre, finché l’inverno la faccia scorrere, e con maraviglia cominci 11 vino a esser nuovo, quando in tutte le cantine si trova già vecchio. Mosto invernale, freddo sangue dell’uve, liquor sanguigno, porpora bevibile, violato nettare”.
Antiche sono anche le tracce della famiglia Allegrini da queste parti, risalgono ad almeno tre secoli fa. È una famiglia di agricoltori. Antiche carte parlano di un Allegrino Allegrini che possiede delle “sorzive” (sorgenti, cioè) a Mazzurega, frazione del comune di Fumane già a metà i6oo. Di sicuro, intorno alla metà dell’Ottocento, gli Allegrini vivono sempre a Pumane, in località Corte Giara: una proprietà composta da diversi piccoli poderi per un totale di una ventina di ettari. Da suddito dell’impero austro-ungarico (il Veneto passa all’Italia dopo la III guerra d’indipendenza, nel 1866) Francesco vende in talleri il vino che dal 1850 ha cominciato a mettere in contenitori di vetro (detto per inciso, è uno fra i primi a farlo nella penisola). Risale al 1854 l’atto di nascita ufficiale dell’azienda, consacrato da un atto notarile.
Col nuovo secolo la ditta cresce. E qui entra in scena la prima donna importante nella storia di Aliegrini. È Caterina Fantin che nel 1907 va in sposa a Valentino Allegrini, nonno della generazione oggi in carica. E una friulana solida, da una viene famiglia di artigiani e commercianti, ha nel sangue l’abitudine di andare in giro per far buoni commerci. “Bisogna allargare gli orizzonti, comprare nuovi terreni. E poi spingersi più lontano per far conoscere i nostri prodotti”, non si stanca di predicare a Valentino. Che le da retta. I progetti si avverano via via anche grazie alla dote che lei non esita a impegnare. In pratica, Caterina prende le redini dell’azienda.
Quando, negli Anni 50, la guida passa al figli della coppia, la proprietà copre quasi una quarantina di ettari. Tocca a Francesco e Giovanni compiere un nuovo salto di qualità. Il primo, classe 1914, è innamorato della terra, bilanci e fatture l’interessano meno. Il secondo - classe 1920, è il padre di Marifisa, attuale presidente del Gruppo Allegrini - è invece più attento agli affari anche se non trascura le ricerche vinicole. Innanzitutto, i fratelli passano dalla vendita in botti al dettaglianti alla commercializzazione del vino in bottiglia. Battono in lungo e in largo il nord Italia e non è irrilevante per la loro fortuna il favore incontrato presso qualche ristorante dl buona fama, come il veronese Dodici Apostoli.
Giovanni, intanto, coltiva i suoi esperimenti. Ne conduce, ad esempio, sull’uva corvina, considerato espressione dell’identità della Valpolicella. Soprattutto, nel corso degli Anni 50, imbocca una strada che avvierà una fondamentale svolta produttiva. Si legge in AmarOne, pubblicazione di Allegrini del 2010: “La leggenda e rare testimonianze orali narrano che la nascita dell’Amarone sia arrivata attraverso intuizioni sperimentative, che con l’aiuto della fortuna e della casualità furono verificate in cantina dai viticultori più lungimiranti. In questo periodo pioneristico, l’Amarone, prodotto solo nelle annate più fredde in cui le uve faticavano a raggiungere la completa maturazione, conquista finalmente l’identica importanza del suo “fratello dolce”, il Recioto”. Ricorda oggi Marilisa: “Il Recioto era il vino che gli piaceva di più. Però capisce che il mondo va in una direzione diversa dal punto di vista commerciale, e allora privilegia la produzione di Amarone”. Non è un passaggio istantaneo né semplicissimo. Intanto, s’impone una mutazione radicale. Giovanni, infatti, decide di puntare sui vigneti di collina. La Valpolicella, a sud, è pianeggiante, a nord, quella “classica”, si alza. Ma, ormai .la diversi anni, la seconda è stata negletta. li successo dell’export verso gli Stati Uniti ha imposto vini facili, quelli che si ottengono nella parte più bassa del territorio, a scapito delle uve settentrionali, più “difficili” e dalla lavorazione assai più costosa.
Su queste ora, invece, si torna a puntare. E però, prima, c’è un passaggio obbligato: recuperare le “marogne” in gran parte crollate. Le “marogne” sono i muretti a secco fondamentali per il terrazzamento dei filari. La loro importanza è descritta in un testo di oltre due secoli fa scritto da Giuseppe Tomaselli (Idea di un orto agraro; Memorie dell’Accademia d’Agricoltura Commercio ed Arti di Verona, 1801): “Per tal disciplina la terra facilmente viene dai coloni rimessa con poco travaglio, apportando beneficio alle piante; l’acqua ritenuta penetra lentamente al di sotto delle marogne fino alle radici delle piantagioni, le quali non temono più la solita arsura, e li campi conservano lungo tempo freschezza...”.
Sono scelte che cambiano anche il paesaggio: l’allevamento di molti impianti passa dalla pergola al guyot (non ci sono pali, viti più basse e più verde come impressione generale), si decide di aumentare il numero di viti per ettaro. Regnano, anzi, le viti. E bisogna tener conto che, da queste parti, prima degli Anni 50 non c’erano colture intensive: si alternavano filari di viti e olivi con, in mezzo, culture frumentizie.
Il mercato estero. Negli anni successivi, Giovanni fa un passo ulteriore: valorizza i “cru”, i vini provenienti da un unico vigneto, battezzato apposta. Nasceranno così La Grola, La Poja, Palazzo della Torre, ovvero quello che, nel 1960, è il primo podere creato sulla fascia iniziale delle colline. riferimento, in questo caso, è alla splendida Villa della Torre, una dimora padronale circondata dai terreni agricoli acquistata proprio in quel periodo. 11 nome deriva dagli antichi proprietari, i Della Torre, una famiglia estinta ormai tre secoli fa. È una fra le più antiche ville venete, un’ala risale al Trecento, il completamento arriva nel Cinquecento su progetto di Giulio Romano e di Michele Sanmichele ispirato alla Domus dell’antica Roma (con peristilo, tempietto e quattro magnifici camini decorati da grandi mascheroni). E, soprattutto, è la villa citata all’inizio, quella dove veniva ospitata a giocare la piccola Marillsa. La quale, nel 1981, viene coinvolta in quella che è diventata l’Azienda Agricola Fratelli Allegrini. All’inizio resiste alle pressioni del padre. Ha felicemente una sua professione di fisioterapista e non vuole entrare in questo mondo dove già operano i fratelli Marco e Walter: “Ma alla fine mi convinse. Non che fossi del tutto novizia, già lavoravo per la ditta il sabato e la domenica facendo le fatture. E mi dedicai alla parte commerciale. Non ci misi molto a capire che quel lavoro poteva piacermi”. Anche perché mette presto una sua impronta. Spinge molto - in tempi ancora pioneristici - verso l’internazionalizzazione: “Sono interessata al mondo. Con me il viaggio entra nella vita della Allegrini:
sapevo poco l’inglese ma facevo dei gran sorrisi. Nel 1983 parto per l’America e ci resto due mesi. Solo costa orientale: New York, Boston, Chicago. Alla fine mi ritrovo con ordini per duemila casse. In pratica, è oltre la metà del nostro fatturato annuo abituale: da 200 passiamo a 400 milioni di lire”, racconta, senza calcare troppo la mano anche se si capisce che l’impatto, tornando a casa, dev’esser stato sensazionale. È anche l’anno della scomparsa di Giovanni. Da allora, l’azienda è cresciuta assai, espandendosi in Toscana (a Bolgheri nel 202 e a Montalcino nel 2007) e raggiungendo, nel 2014, un fatturato complessivo di 28 milioni: “Oggi penso di essere un po’ la reincarnazione della nonna Caterina”, dice Marilisa ironica (ma neppure troppo...).

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