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Sette / Corriere Della Sera

Cantina con maiale per la signora del vino ... Francesca Moretti, dai viaggi giovanili nel Bordeaux alla creazione dei suoi “rossi”... La struttura firmata dall’archistar, il concime naturale di suini e bovini, il fotovoltaico girevole sul laghetto: così nascono, a Petra, bottiglie d’autore. Sotto la guida di una donna predestinata... Il primo viaggio “memorabile”: “A 12 anni, fra i vigneti della zona dei Bordeaux”. Le si illuminano ancora gli occhi: non esiste, nella natura umana, nessun miglior “indicatore di passione”. “Da bambina mi chiamavano Stricabicer (è dialetto bresciano, ndr)”, confessa, divertita. “Strizzabicchiere, perché alla fine delle cene, andavo a bere il vino rimasto sui tavoli. E ml prendevo delle grandissime sgridate...”. Fu il primo “segno”. Altri ne seguirono. Gli studi superiori, con la tentazione di andare subito a fare la scuola da enologa, dopo le medie: “Era lontana da casa ma aveva un convitto, però era fondamentalmente per maschi: i miei mi dissero “Ma anche no”, e mi spedirono allo Scientifico vicino casa”. Poi c’è stata l’università: “Agraria, a Milano, quando durava cinque anni. Ero allieva di Attilio Scienza, un grande. “Viticoltura” era stata appena introdotta in facoltà. Quindi, due annidi specializzazione nell’Oltrepò Pavese”. Tutto, insomma, sembrava portarla qui, a Petra, tenuta in Val di Cornia, giusto alle spalle di Piombino: di notte, dalla cima della collina, fra le vigne, si vedono le luci della cittadina e il buio nero del mare, che di giorno ti stupisce con la sagoma dell’Isola di Montecristo. “È la mia creatura”, racconta con semplicità, Francesca Moretti, della cantina che sotto le sue cure produce Merlot e Cabernet dal 1998. Tra Vasco e bollicine. Educazione di un’autentica “signora italiana del vino”. Attenzione: quando leggerà questa definizione giornalistica - un po’ di sana banalità professionale ci sia concessa - lei non si riconoscerà, statene certi. Potrebbe mal una giovane che - nel questionario della vita - alla domanda “il viaggio?” mette, al primo posto, “le settimane passate in Patagonia, con una borsa per le mie macchine fotografiche Leika più grandi dello zaino”? E che mentre guida ascolta “le schitarrate di Paco De Lucia e Al Di Meola” e magari - rigorosamente da sola - si mette a cantare Battisti, Vasco e Simon&Garfunkel? No, che non potrebbe. Ovvio. Ma ciò non toglie che sia proprio così. Bellavista, l’etichetta di punta della famiglia Moretti, con 1,4 milioni di bottiglie, è al vertice della sfida italiana allo champagne francese. “Quando mio padre ha cominciato a produrre bollicine a Erbusco, nel 1977, voleva seguire la sua passione”. Bellavista, con più di 190 ettari vitati in Franciacorta, ormai è un brand dell’eccellenza italiana. Cui sono seguiti, nelle acquisizioni di casa Moretti, Contadi Castaldi e Petra. E anche se Francesca, a 39 anni, è a capo dell’intera area vino del Gruppo di casa (con sede a Erbusco, in provincia di Brescia), è proprio la tenuta di Suvereto a svelarla meglio. Sebbene qui passi meno di una settimana al mese. Papà Vittorio, che oggi ha 72 anni, in Toscana, c’era arrivato con un progetto preciso: “Volevo ripercorrere il concetto antico che i francesi avevano applicato al mondo vinicolo realizzando i grandi Châteaux, costruiti per rendere immediatamente evidente all’occhio l’unicità del vino e del territorio in cui è prodotto”. Poi l’idea paterna comincia a prendere forma dalle mani di Francesca, che ormai ha ben dimostrato di essere destinata alla vigna non solo perché “figlia”. “A Petra, ho fatto - con Attilio Scienza - i primi studi di zonazione, per assegnare ad ogni appezzamento della tenuta il vitigno più idoneo”. Merlot, soprattutto, poi Cabernet Sauvignon. E Sangiovese. Terra di galestro “simile a quella del Bordeaux”, ricca di manganese e ferro, che dà la balsamicità al vino.
La chiesetta dei cinghiali. Quaranta ettari di vigneti diventano 100, su una proprietà di 300, che conta anche boschi, una piccolissima chiesetta sconsacrata “dove ormai i cacciatori portavano a dissanguare i cinghiali: mia madre l’ha fatta riconsacrare a San Lorenzo”, una quarantina di maiali che “spostiamo nella proprietà e di cui utilizziamo il letame per il sovescio”. Per fertilizzare, insomma, il terreno. “Ma usiamo anche quello di cavalli e mucche: niente prodotti chimici, tutto è naturalmente biologico. Il mio principio è che dobbiamo lasciare ai nostri figli un mondo migliore di quello che abbiamo ricevuto”. Perché la terra - maiuscola o minuscola che la si scriva - non l’abbiamo in eredità dai nostri genitori ma presa in prestito dai nostri figli: quante volte abbiamo sentito citare questo antico detto degli Indiani d’America? Beh, Francesca Moretti sembra crederci davvero. “Nel laghetto della proprietà abbiamo montato 60 pannelli solari. Quando l’ho proposto a mio padre, mi aspettavo di doverlo convincere, invece ml ha sorpreso con una controproposta:
perché non facciamo un impianto che possa ruotare intorno a un perno sull’acqua in modo da ricevere i raggi per tutto il giorno? In quattro mesi l’investimento (di 50mila euro, ndr) era ripagato; adesso produciamo in modo pulito tutta l’energia che ci serve e rivendiamo l’eccedenza. Per l’acqua vale Io stesso: anche se questa è la terza area più siccitosa d’Italia, quella che ruscella dai monti ci dà la possibilità di irrigare da maggio a ottobre”. Ecosostenibili e autosufficienti. “Così Petra è cresciuta con me”, racconta Francesca Moretti. “Una volta, un vignaiolo dello Champagne, amico di mio padre, mi ha dato la lezione più grande: ciò che la vigna produce è - comunque - il tuo “100%”. il lavoro che viene dopo, per arrivare alla bottiglia, consiste nel rispettare e cercare di mantenere questo massimo, nello scendere il meno possibile al di sotto dell’asticella iniziale”. Metafora della vita, a guardarla bene, prima ancora che scuola di vino. E la lezione migliore di papà Vittorio? “La carica: a 72 anni trascina ancora tutti. Quando gli propongo cose nuove: non mi dice mal “sei impazzita?”, lui guarda sempre avanti”. Avanti, di sicuro, guardavano entrambi quando, avviati i vitigni, hanno deciso di portare a compimento l’idea originaria, creando a Petra una cantina di design, che lasciasse un segno forte, affidando la sua realizzazione a un’autentica archistar: Mario Botta. “Siamo andati in giro per il mondo, alla fine abbiamo preso a modello Opus One (la joint venture fra il barone Philippe de Rothschild e Robert Mandavi nella californiana Napa Valley, ndr) e Chateau Pichon-Longueville, a Pauillac, nel francese Medoc”. L’impatto è notevole: un corpo cilindrico “totemico” (copyright dell’architetto svizzero) in pietra rosso - “di marmo veronese” - la cromia più simile a quella della terra che fu degli etruschi. “Da Brescia sono arrivati poi i pannelli di cemento armato, assemblarli è stato come costruire un grosso Lego”, ricorda Francesca. “Botta, pur nell’impianto architettonico deciso da lui, s’è messo al servizio delle nostre esigenze di produzione”. La galleria nella roccia. Dentro, infatti, ogni elemento architettonico è funzionale, ogni passaggio della produzione è pensato con attenzione alla qualità e al consumi energetici. L’interno, enorme, è scenografico quanto l’esterno, con l’enorme cilindro che accoglie i visitatori, i serbatoi della vivificazione di acciaio rosettato, la profondità della cantina che può contenere 1.000 barrique su tre livelli, la lunga galleria d’invecchiamento scavata per ben 70 metri nella roccia (“Non c’era nel progetto, l’ha chiesta mio padre”), fino alla pancia della montagna. E Petra è una delle “stazioni” di spicco di un ipotetico percorso di “cantine d’autore” di Toscana, una a distanza massima di 25-30 chilometri dall’altra: “L’ha messo bene in evidenza il sindaco di Suvereto, Gianpaolo Pioli”, spiega Francesca Moretti, “che ha avuto l’idea di promuovere un turismo ad hoc”. L’idea, ottima, già funziona altrove, a cominciare dalla Napa Valley (“La Regione Toscana ha appena approvato li progetto, che coinvolgerà almeno 15-17 cantine e dovrebbe essere operativo dal 2014”, conferma Pioli). “Petra ha tutte le qualità per essere un gran vino”, dice - quasi con timidezza - la sua artefice, In realtà, non è un’autocelebrazione. È Wine Spectator, bibbia mondiale del settore enologico, ad avere dato - pochi giorni fa - ben 94 punti (su 100) alla bottiglia Petra Quercegobbe (prende il nome dal vigneto più antico della tenuta) 2008. “Qui produciamo 30-35mila bottiglie, a seconda delle annate, ma abbiamo fatto la scelta di commercializzarle solo quando è davvero buono”. Il 60% se ne va all’estero: Stati Uniti e Svizzera, soprattutto, ma anche Giappone, Belgio, Germania, Gran Bretagna. “li nostro enologo è il secondo al mondo, anche se è di quelli che preferisce stare dietro le quinte”, precisa Francesca Moretti. li francese Pascal Chatonnet, quando viene a Petra, 6-7 volte l’anno, coinvolge tutti nel lavoro, e assaggiando i tagli “chiede anche ai ragazzi della cantina: cosa ne pensi?”. Condividere. “Condividere”, insomma, è il principio. Traducendo nel reale il mantra dei social network, che Francesca ha cominciato a usare: ““Posto” su Facebook immagini e news dalla Val di Cornia, vedo che sempre più amici seguono la vita della cantina”. Ma è sui campo che funziona di più, il coinvolgimento. O meglio, sui campi: come dimostra il successo avuto dal corsi di potatura organizzati da Petra nella valle. “Ciò che fai in campagna te lo porti fino alla bottiglia. Le donne che lavorano nei vigneti sono le prime a voler imparare a farlo bene”, conclude la “signora” del vino di Petra. “A cominciare da semplici gesti”. Come il fatto di girare le foglie così da proteggere il singolo grappolo dal sole: “In modo naturale”. Perché, viene da chiedere a questo punto, ne esiste uno diverso?

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