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Sette / Corriere Della Sera

Quei “separatisti” siculi nel Pantheon di Indro ... Una volta, finì addirittura nei cruciverba della Settimana Enigmistica. “Storico territorio siciliano vocato al vino”, recitava la domanda. “Regaleali”, era la risposta giusta, al 53 orizzontale. Con quel nome, che figurerebbe bene nelle pagine dei Viceré di De Roberto, a Regaleali si arriva attraversando un paesaggio senza particolari pregi. Brullo. Rare le case: i contadini vivevano - e vivono - raccolti nei paesi in cima ai cocuzzoli. Siamo al confine fra le provincie di Palermo e Caltanissetta, nella cosiddetta contea di Sclafani. A sud est di Valledolmo, cambia tutto. Si entra in una specie di oasi. Boschetti, campi e vigneti (ma un tempo qui era tutto frumento: il granaio dell’impero Romano). In mezzo, sentieri e stradine a salire e scendere colline che vanno dai 4 ai 900 metri sul livello del mare (da queste parti, non arriva la torrida estate siciliana).
il nome Regaleali, probabilmente, deriva dall’arabo: Rahl All, ovvero dominio di Ali. Nella tenuta ci sono due grandi masserie: ampie strutture a quadrilatero, la corte centrale si chiama “bagilo”, e su questa affacciano la residenza padronale e le abitazioni di operai, fabbri e mugnai, le mura alte e spesse (tipiche dell’entroterra siciliano, a differenza della costa, in modo da creare una specie di fortezza contro i briganti).
Wagner In villa, intorno - quando i conti Tasca d’Almerita (radici nei Nebrodi, a Mistretta, altre proprietà ad Angimbè) la comprarono da Alvarez de Toledo, nel 1830 - c’erano 1.200 ettari, prevalentemente coltivati a cereali, tranne una trentina con dei vigneti e alberi da frutta, il cosiddetto “girato” - corrispondente al francese “dos” - cinto da muri a secco. I due fratelli Tasca si spartirono le masserie. A don Lucio toccò Case Grandi, a don Carmelo Case Vecchie. Fu un buon anno per il casato, il 1830. Grazie al matrimonio di Lucio con Beatrice Lanza Branciforti, arrivò anche la splendida villa Camastra, all’epoca, poco fuori dalle mura di Palermo, oggi nota come villa Tasca (ospitò Richard Wagner che completò lì la stesura del Parsifal). I primi vigneti, i Tasca li piantarono proprio nella tenuta palermitana, ma con il tempo la loro fama enologica - da protagonisti della riscossa del vino siciliano - si sarebbe inesorabilmente legata a Regaleali.
Questa è una storia che comincia col ‘900, con Lucio, bisnonno della generazione attuale, cioè di Giuseppe e Alberto, rispettivamente classe 1963 e 1971, che oggi guidano anche altre quattro tenute per complessvi 430 ettari coltivati a vite:
Tascante (sull’Etna), Capofaro (nell’isola di Salina), Sallier de la Tour a Monreale e Whitaker nell’Isola di Mozia. Don Lucio, ormai anziano, è stato descritto da Indro Montanelli in un capitolo di Pantheon minore (Longanesi; 1950): “In piedi all’alba e instancabile fino al tramonto nonostante i settanta suonati, magro, adusto, energico e volitivo”. Un tipo deciso e appassionato: sarà sempre sensibile al tema dell’indipendentismo siciliano. Già nel 1920, è lui a diffondere un manifesto in questo senso, usando come firma un fantomatico “Comitato degli isolani”. Gli alleati, dopo lo sbarco in Sicilia, lo nominano sindaco di Palermo il 27 settembre 1943. Si dovrà dimettere un anno dopo, il 6 settembre 1944, con le prime elezioni democratiche, non senza aver avuto occasione di incontrare una missione sovietica capeggiata da Andrej Vishinskij, il cosiddetto “martello di Stalin”. Il quale gli chiede se davvero i siciliani vogliono creare uno stato sovrano provvisto di esercito “e di cannoni”. La risposta di Tasca è secca e repentina:
“Certamente di cannoni! Ma tutti sulla costa dello stretto di Messina per difenderci dalla penisola...”. Del resto, anche negli anni successivi, il conte sarà sensibile al movimento separatista, spesso coinvolto nelle tortuose manovre del Mis di Finocchiaro Aprile e dell’Evis, il braccio armato del movimento.
Quando queste vicende sono ormai sullo sfondo, ne riparla con Montanelli che, sui tema, è stato assai ostile. Indro riferisce la frase di Tasca: “L’Italia è molto lontana da qui: solo pervia radio ci giunge la sua voce, la sua roca voce di protesta e di minaccia contro di me, latifondista, protettore e impresario di briganti, nonché affamatore di contadini. E allora il separatismo ml parve...”, la frase resta incompiuta. In famiglia Tasca d’Almerita c’è una tradizione: nonni e nipoti vanno d’accordo, padri e figli, invece, bisticciano. La norma prevede, è ovvio, delle eccezioni, ma quando vale si manifesta nei campi più diversi:
dalle scelte vinicole al comportamento in situazioni dl drammatica emergenza. Eccezione è il rapporto fra Lucio e il figlio Giuseppe sul piano politico: il giovanotto è ben coinvolto nelle manovre separatiste
del dopoguerra.
Meglio autoctoni. Presto, comunque, si trova a gestire (anche grazie all’aiuto finanziario della consorte, Franca, una borghese abbiente di Corleone) le proprietà ancora molto rivolte ai cereali: tuttora, sulla facciata di Casa Grande è fissata la targa meritata per i successi nella “Battaglia del grano” del 1935. A metà degli anni Cinquanta, Giuseppe vuole cambiare molte cose, innova, sperimenta. Soprattutto, si appassiona al vino. La tenuta è stata più che dimezzata dalla riforma agraria, ma nei 500 ettari rimasti, le viti cominciano a espandersi. Anni dopo, questa mutazione verrà ricostruita da Luigi Veronelli in I vignaioli storici (Nichi Stefi editore; 1986):
“Oggi Giuseppe Tasca d’Almerita non vuole che il suo vino, di cui ha scoperto stoffa e potenzialità, esca sfuso e anonimo come usava quando prese in mano le redini dell’azienda: applica tecniche vitivinicole di puntuale attenzione, si appoggia a tecnici, famosi e capaci, e adotta vitigni nuovi, come il nerello mascalese e il sauvignon, piantandoli a fianco agli inzolia e catarratto della tradizione, col preciso proposito di ottenere il “gran vino di Sicilia””. Il destino pare spingerlo in questa
direzione. Gli capita cli ritrovare a New York un’antica bottiglia del vino prodotto a villa Camastra. Il suo sogno diviene quello di creare un “cru” capace di rivaleggiare con le più celebri etichette francesi, tipo Romanée Conti, e per questo punta con decisione sui vitigni autoctoni, anche i più dimenticati. Così, nel 1970, darà vita alla Riserva del Conte: da un alberello - chiamato San Lucio - di Perricone e Nero d’Avola.
Sequestro dl persona fallito. La tradizione Tasca della sintonia che salta una generazione, qui si manifesterà appieno. Intanto, però, non succede con il vino. La contingenza è molto più drammatica. Una banda - non dev’esser stata troppo esperta - assalta Regaleali per sequestrare Lucio, il patriarca. Si trova anche un ragazzino di mezzo: è Lucio junior, il nipote, figlio di Giuseppe. Luciddu, come fa di soprannome, è curioso e coraggioso. S’intromette, domanda che cosa succede, proclama deciso che con il nonno viene anche lui. I rapitori vengono presi in contropiede, la situazione si complica per loro: il ricatto si sgonfierà senza conseguenze gravi. Tornando in campo enologico, invece, la sintonia sarà meno forte - per usare un eufemismo - fra Lucio e il padre Giuseppe. Qui, ormai, siamo agli anni Sessanta e oltre. Il capofamiglia, si è detto, è tradizionalista, semmai punta a recuperare vini siciliani dimenticati. Il figlio vuole innovare, competere con i vitigni internazionali. Qui le versioni divergono un po’. Una ricostruisce un contrasto duro. Lucio porta dì nascosto a Regaleali barbatelle di cabernet e chardonnay, le pianta e arriva a produrre dei vini, sempre in gran segreto. Quando li presenta al padre, questi si arrabbia talmente da chiudersi in villa per una settimana. “No, non andò così. Discutevamo spesso, ma su altre cose...”, corregge oggi Lucio, che spiega: “Mio padre, sicuramente, non introduceva vini nuovi, ma a fine Sessanta decise di imbottigliare quelli che produceva e cominciai a lavorare con lui: li vendevo e tenevo i conti; detto per inciso, la parola “lire” era bandita, non mi dava nulla... A lui, comunque, bastavano i vinI che adorava. Io ero innovativo: porterò
in azienda il primo pc, sarò il primo a sperimentare un barrique... Certo, solo grazie all’intervento di mia madre, mio padre mi affidò mezzo ettaro di terreno, comprai 200 piante di viti- gai francesi (chardonnay, sauvignon blanc, cabernet, pinot nero) e li piantai lì. Tre anni dopo feci il primo vino: quattro damigiane. Ma non
è vero che mio padre se la prese a
morte. E vero, invece, che s’incavolò con me quando chiusi con
l’equitazione. Alle Olimpiadi del
1960 mi ero piazzato dodicesimo nel “Concorso completo”, il primo degli italiani. Lui sperava vincessi le Olimpiadi successive. Io, al contrario, con i cavalli cominciai a sentirmi una persona inutile e mi ritirai. Ed è vero anche che voleva facessi il bancario dopo essermi laureato in economia e commercio, mentre io non ci pensai proprio. Però abbiamo avuto anche momenti di grande empatia. A ricordarne uno mi commuovo ancora:
senza che l’avesse mai dichiarato, sentii che avrebbe tenuto moltissimo a diventare Cavaliere del lavoro. E compresi di aver avuto ragione quando l’anno dopo la nomina arrivò”. Sarebbero arrivati anche tanti altri riconoscimenti in campo enologico. Oggi, i Tasca producono 32 etichette diverse provenienti da 42 vitigni. “La nostra “mission” è condividere quello che abbiamo conosciuto e scoperto nei vari territori: varietà di cìbo e facce, tradizioni, persone e culture. Il punto di riferimento è quello, più che le varietà, sia autoctone che Internazionali”, spiegano Alberto e Giuseppe, raccontando anche della vigna organizzata assieme alla Regione Sicilia dove si curano le “varietà reliquie”, visto che Regaleali - grazie alle sue variabili di suolo, altitudine ed esposizione - è un vero e proprio laboratorio vitivinicolo. Tanto che, alludendo ai celebrati “Supertuscan”, fra gli enologi è invalso il vezzo di parlare dei “Supertasca”.

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