02-Planeta_manchette_175x100
Consorzio Collio 2024 (175x100)

SORSI DI CULTURA: PER GLI ENO-APPASSIONATI IN VACANZA E PER CHI NON DISDEGNA MAI UNA BUONA LETTURA WINENEWS CONSIGLIA “I POETI DEL VINO - CINQUANTA SECOLI DI POESIA DALL’EPOPEA DI GILGAMESH ALL’ODE AL VINO DI PABLO NERUDA”

Italia
I poeti del vino in cinquanta secoli di poesia ...

Nell’immaginario collettivo la figura del poeta di qualunque epoca si associa con candida naturalezza alla sfera enoica: un bicchiere di vino per conciliare l’ispirazione, un brindisi per propiziare la riuscita delle rime o festeggiarne il successo fino ad arrivare a scene di veri e propri deliri bacchici propedeutici allo sprigionamento del genio compositore. Qualcuno prima di noi ha trovato un modo semplice per definire questo connubio senza troppi giri di parole, anzi con una sorta di sillogismo quasi disarmante: “Siccome il vino è poesia, chi lo beve ha da esser anche poeta”.
Prende il via da questa massima di matrice popolare l’avventura letteraria compiuta dell’ingegner Giulio Caporali, autore de I poeti del vino (edito da Protagon Editori; informazioni su info@valdipiatta.it), un’opera unica nel suo genere che si trova, oltretutto, a colmare un vuoto editoriale. Croce e delizia di tutti i lettori, il titolo, anche in questo caso, rivela senza svelare del tutto e invoglia alla lettura sia i cultori di poesia che gli amanti del nettare di Dioniso.
Fine appassionato di cultura e letteratura classica, l’autore crea un vero e proprio percorso diacronico sulle tracce di tutti i componimenti poetici che hanno dedicato qualche rima al prezioso nettare in questione; ne ripercorre la storia in undici capitoli trascinando il lettore in un viaggio a più livelli che tocca le corde non solo di chi sta cercando un’agile lettura ma, pur mantenendo costante un linguaggio semplice e immediato, cattura l’attenzione anche di occhi smaliziati abituati a saggi o a trattati specialistici.
Capitolo 1 - “Poesia a vino a Montepulciano: un incontro non casuale”
Come nasce una raccolta di poesie dedicate al vino? Nasce, come ogni cosa in natura, dall’unione di due forti passioni, quella per la letteratura in versi e quella per la bevanda che più di ogni altra regala attimi d’ispirazione poetica, il vino. Ma nasce anche da un gene familiare di un nonno che, nei momenti di meritato riposo, sorseggiava un bicchiere di sangiovese e, dopo l’ultima goccia recitava un sua personale quartina di settenari.
Giulio Caporali apre la sua opera facendoci partecipi di quelle ragioni recondite che lo hanno spinto ad affrontare questa fatica letteraria e racconta di non essere stato del tutto solo almeno nella fase denominata “la ricerca delle poesie perdute”: supporto prezioso sono stati i suoi compagni di incontri di letture del CantinoneArte di Montepulciano, una specie di club di amanti dell’arte in senso lato.
Le poesie e i poemi sul vino, in mezzo ad un calderone di rime su ogni argomento immaginabile, si sono rivelate abbastanza difficili da reperire a causa della loro tacita messa all’indice dai testi scolastici, ma, una volta trovato il filone giusto questa vena ha dato copiosi frutti, distribuiti lungo dieci capitoli.
Un ultimo fattore ha favorito la stesura dell’opera e merita di essere ricordato a detta dell’autore: Montepulciano, una perla artistica culturale della Toscana rinomata quasi esclusivamente per la qualità del suo vino. Qui tra le dolci colline ha trovato la sua dimensione, molti anni fa, il Caporali (che per comodità, lungo il corso di questa opera chiameremo il Nostro) dedicando la sua vita a ciò che per lui conta davvero.
Capitolo 2 - “Da Gilgamesh a Omero”
Un veloce ripasso della storia della letteratura non guasta mai; per molti, inoltre, non si tratta nemmeno di ripassare quanto di scoprire: che gusto diverso avrebbe avuto l’interrogazione di lettere a scuola se ci avessero chiesto le poesie che parlavano di vino! Esattamente quello che si propone di fare il Caporali nella sua opera: avvicinare gli amanti del mondo del vino alla poesia e alla letteratura e accostare gli eruditi e i “topi di biblioteca” al magico mondo dell’enologia.
Sembra proprio che fin dai propri albori la poesia si sia trovata a parlare di questo nettare oggi così di moda. La ricerca del nostro autore parte proprio dal poema epico più antico di cui si abbia conoscenza, L’Epopea di Gilgamesh. Tagliato fuori dai programmi ministeriali delle scuole medie inferiori e superiori italiane non sono in molti a conoscerlo. Opera di circa 3500 versi divisi in 12 canti è stato ritrovato dalla ricerca archeologica inciso in caratteri cuneiformi su tavolette di argilla in un sito corrispondente all’odierna Mossul, in Iraq dove, nel XII sec a.C., periodo della composizione del poema, a regnare era il re Nabucodonosor I. Il poema narra la fantastica storia dell’antico re di Uruk, Gilgamesh, un eroe per due terzi divino e per un terzo umano.
L’importanza di quest’opera di mitologia babilonese si evince dalla ingente eredità che ha lasciato in altre pietre miliari della letteratura antica come alcuni libri della Bibbia (in particolar modo il Genesi) e nella mitologia greca. Basti un esempio su tutti: il celebre episodio biblico del diluvio universale e dell’arca di Noè era già presente nell’Epopea di Gilgamesh e si ritrova in Pindaro con il mito di Deucalione e Pirra.
Il vino nel poema ricopre essenzialmente un ruolo “liturgico” e fa la sua comparsa sempre durante momenti in cui si celebrano veri e propri riti o cerimonie importanti.
Cedendo il passo a qualche preziosa digressione, il nostro autore coglie l’occasione di questa prima testimonianza poetica del vino per dirci qualcosa sulle sue origini. Dagli studi archeologici e paleontologici, infatti, sembrerebbe che proprio quella fertile “terra tra i due fiumi”, la Mesopotamia, patria della stessa Epopea di Gilgamesh abbia favorito l’incontro tra homo sapiens e vitis vinifera.
Il resto del capitolo, dopo un esordio così ricco di favolosa mitologia medio-orientale, si concentra su due bestsellers in versi, che non smettono di avere successo a distanza di oltre 2700 anni dalla loro composizione: Iliade e Odissea. Il Caporali, che come abbiamo già sottolineato è un fine classicista, con leggerezza e, bisogna riconoscerlo, estrema cautela dà il suo contributo ad una delicatissima disputa, nota come “questione omerica”. Semplificando al massimo diremo che gli studiosi di Omero stanno discutendo da secoli, ormai, per stabilire se questo celebre cantore cieco sia esistito davvero, se inoltre egli sia l’autore tanto dell’Iliade che dell’Odissea oppure di una sola di queste due opere. Fiumi di parole sono stati dedicati all’argomento senza che nessuno sia riuscito a venirne a capo. Entrambi le tesi (autore unico o due autori differenti) sono supportate da forti teorie nessuna delle quali però risolutiva. Basandosi molto semplicemente sulla diversa natura delle citazioni del vino tra Iliade e Odissea il Caporali delinea un’interessantissima tesi che va a supporto della teoria dei due autori diversi e, con la perizia di un filologo, ne riporta i passi a testimonianza.
Capitolo 3 - “I lirici greci”
Dipanate le nebbie della questione omerica si sente subito un cambio di tono esalare dalle pagine del nostro viaggio letterario: il frutto della vite passa dal ruolo di semplice comparsa a vero e proprio protagonista in moltissimi componimenti poetici e anche il nostro autore acquista uno sprint diverso nell’illustrarcene le gesta. Siamo a cavallo tra VII e VI sec. a. C. e in Grecia vede la luce il Simposio. Elitaria riunione per personaggi d’alto rango, esso era esclusivamente dedicato a due attività: bere vino e discorrere a ruota libera di varie argomentazioni come filosofia, arte, politica e scienza. Vietato mangiare affinché la bevanda possa inebriare i sensi senza ostacolo alcuno e favorire così la libera conversazione.
Il carattere prettamente rituale del Simposio, che agli occhi di bevitori del terzo millennio appare come una profonda ubriacatura organizzata e autorizzata, ci viene rivelato non solo dalle numerose testimonianze scritte ma anche dalla vastissima gamma di coppe e recipienti. Il Caporali sembra non resistere alla tentazione di descrivere tutte le coppe, dall’anfora per trasportare il vino ai vari formati per servirlo, berlo, conservarlo e degustarlo e fornisce ai lettori anche un’illustrazione per visualizzarle. L’uso differenziato di tutti questi recipienti ci dimostra, infatti, quanto la cultura greca, per quest’aspetto legato alla ritualità del bere, fosse vicina alla nostra.
E’ in questa atmosfera simposiaca che i poeti conosciuti come “lirici greci” hanno fatto fluire i pensieri e hanno composto, con l’entusiasmo e il furore dionisiaco che ancora trapela leggendoli, i loro famosi versi. Alceo, Anacreonte, Archiloco ci hanno regalato una lunga serie di componimenti in cui il vino è davvero al centro dell’attenzione. Rifugio per le pene d’amore, ristoro per le membra affaticate, occasione per festeggiare un successo: è sempre il momento propizio per gustare un calice di vino. Tuttavia, anche se passi avanti sono stati compiuti dal ruolo esclusivamente liturgico dove lo relegavano i poemi omerici, il nettare di Dioniso dovrà attendere qualche altro secolo per trovare, nei cosiddetti “lirici alessandrini” del IV e III sec. a.C., poeti alla corte di Alessandria d’Egitto, una veste più umanizzata. Nei loro epigrammi il vino è quasi sempre messo al servizio dell’amore, non solo romantico, e spesso si trova ad essere usato come metafora delle fasi di un rapporto amoroso in cui, come servendosi di un codice cifrato, si usa il linguaggio della vendemmia.
Capitolo 4 - “I poeti di Roma”
Gesù raccontava parabole, Platone cedeva al fascino propedeutico dei miti e il nostro autore si diverte a catturare l’attenzione attraverso gli aneddoti. Il capitolo dedicato a coloro che, nell’antichità, il vino l’hanno cantato davvero, inizia con una storia che a noi, smaliziati uomini e donne del ventunesimo secolo, fa sicuramente sorridere. Nell’antica Roma le donne non potevano bere vino: i mariti, per controllare che osservassero il divieto avevano istituito una regola piuttosto singolare, definita “ius osculi”:il diritto del bacio. Bastava un bacio alla leggiadra consorte per stabilire se c’era stata effrazione e, qualora la colpa fosse stata consumata, erano dolori. Il motivo, senza andare a cercare troppo lontano, era di carattere prettamente economico: pregiato prodotto d’importazione proveniente dall’Etruria non si poteva sperperare facendolo bere alle signore.
Questo rinomato vino proveniente dalla moderna Toscana, sembra che facesse gola anche quei “barbari” che abitavano nella pianura Padana, i Galli. Invogliati dal dolce nettare di un certo Arrunte di Chiusi, essi “abbandonarono le nebbie” e arrivati a destinazione sfruttarono l’occasione per saccheggiare Roma.
Finalmente si inizia a fare sul serio, sembra pensare l’autore. Il passaggio dalla cultura greca a quella latina, e, di conseguenza almeno per i primi secoli della Repubblica dalla penisola ellenica a quella italica, segna l’avvento di una nuova era per il vino e per i suoi cantori. Questo cambiamento di rotta ha radici profonde: nella cultura romana il vino non è più considerato soltanto uno strumento atto a stimolare il cervello e la lingua, come avveniva nell’ambito del simposio greco per rendere libera e disinvolta la conversazione, nell’Urbe si mangia e si beve senza secondi fini.
Virgilio, Ovidio, Petronio, Orazio, Marziale: tutti questi grandi poeti romani le cui opere e la cui fama perdura ancora dopo duemila anni di storia, hanno celebrato con i loro versi il nettare di Bacco; e se il padre del pio Enea e il genio delle Metamorfosi, vi si sono dedicati più per dovere che per pura passione, Orazio può a ragione essere incoronato il re della poesia enoica che al Caporali piace ricordare con una sua massima. “Intanto beviamo...e qualunque cosa ci aspetti, ci penseremo dopo”.
Pur fedele al suo itinerario sulle orme della poesia dedicata al vino, l’autore chiede il permesso di effettuare una deviazione: tra gli scrittori romani ce n’è uno che, pur non avendo scritto niente in poesia, al vino ha dedicato una fetta importante della sua opera. Plinio il Vecchio noto per la sua opera enciclopedica, Naturalis Historia è rimasto nella storia per la sua morte spettacolare sulla bocca del cratere del Vesuvio durante l’eruzione del 79 a. C ( quella cioè che sommerse Pompei ed Ercolano): egli tratta l’argomento vite, vino e affini. Ben 29 capitoli del libro XIV espongono, infatti, con dovizia di particolari le tecniche di vinificazione e i vari tipi di vino; il libro XVII, invece, si dilunga sui problemi relativi all’esposizione delle vigne, all’innesto, ai metodi di coltura e alle malattie delle viti e nel libro XXIII vengono elencati gli usi medicinali della vite e dei suoi derivati.
Dopo il fine degustatore Orazio che, potendoselo permettere beveva solo cru, e dopo il bevitore più comune Marziale che aspirava ai raffinati nettari ma si doveva accontentare di quello che “passava il convento” si chiude un lungo capitolo di poeti del vino. Le invasioni barbariche, la fine dell’Impero Romano e le conseguenti fasi d’instabilità che assaliranno l’Europa bloccheranno inevitabilmente tutta una serie di attività coltivabili esclusivamente in tempo di pace e stabilità economica.
Capitolo 5 - “La poesia della taverna”
Rimasto nella storia come il periodo dei secoli bui, il Medioevo fu buio anche per la poesia del vino. Tuttavia poeti e vino trovarono una sorta di rifugio durante questo periodo infausto, in attesa di tempi migliori. In giro per l’Europa sorsero e prosperarono una fitta serie di monasteri e conventi al cui interno si pregava e si studiava facendo qualche pausa mangiando e bevendo. Proprio tra una bevuta e l’altra alcuni clerici ( o chierici che dir si voglia) composero dei canti in una specie di latino misto a vocaboli del dialetto. Questi canti, poesie in musica in realtà, sono tornati alla ribalta una decina d’anni fa perché adattati alla musica moderna da Carl Orff, hanno subito trovato spazio nelle colonne sonore dei film e nelle pubblicità. Si tratta dei Carmina Burana dal nome dell’Abbazia dove è stato rinvenuto il codice manoscritto che li conservava, Abbazia Bura Sancti Benedicti. Oltre la giocosa goliardia, da questi inni al vino e alla bevuta in compagnia emerge che il consumo di questa preziosa bevanda sarà sempre più connesso con un luogo specifico, l’osteria. Il paradosso è che in un’epoca profondamente intrisa di fervore religioso soprattutto nella forma, se non nella sostanza, l’osteria è un mondo nel quale regna l’ugualianza, in quanto non esistono classi sociali e si venera un dio pagano, Bacco.
I Carmina Burana, hanno sempre esercitato un certo fascino nei lettori, probabilmente determinato dagli incitamenti a godersi la vita e a prendere con leggerezza la quotidianità; il Caporali riporta nel testo più di un esempio di poesie tabernarie e fa notare che in esse sono stati abbandonati gli schemi metrici tradizionali della lirica greca e latina e le strofe, di 4 versi, presentano un’unica rima.
A ben guardare, comunque, dietro la superficie di giocosa goliardia presente in questi carmi si nasconde una profonda amarezza: sembra quasi che il vino rappresenti l’unica luce che riesca a illuminare questi lontani secoli bui.
Dopo la fugace digressione effettuata nel capitolo precedente sembra che il Caporali ci abbia preso gusto e si rilancia in una deviazione dal percorso tracciato. Curioso di sapere se quel faro che rischiara le osterie e i loro avventori laici penetri anche nei luoghi religiosi scopre che la Regola di San Benedetto permette ai monaci di bere circa mezzo litro di vino al giorno; tuttavia, prosegue, chi riuscirà ad astenersene riceverà una una ricompensa. Come aveva scrupolosamente annotato Plinio nel I sec. a.C. Il vino non è solo una bevanda, anzi sembra che tra i religiosi l’uso preponderante sia proprio quello farmaceutico.
Dalla serenità del chiostro al tormento di un poeta maledetto l’autore, per chiudere il capitolo sulla poesia della taverna, sceglie di regalarci una vera e propria perla: Cecco Angiolieri. Nato a Siena nel 1260 egli rappresenta l’archetipo dei poeti maledetti: implicato in varie risse e lotte politiche subì numerosi processi, condanne e finì in esilio. Dei suoi centocinquanta sonetti che ci sono arrivati alcuni rappresentano delle vere e proprie dichiarazioni d’amore al vino. Prezioso ai suoi tempi, ma in qualche caso anche ai giorni nostri, il Caporali trascrive un sonetto in cui illustra regole d’oro di questo scrittore senese per tornare in forma, cioè pronto a ricominciare a bere, dopo una robusta bevuta.
Capitolo 6 - “Omar Khayyàm, il poeta del vino”
Un classicista che esce dall’ottica eurocentrica e si addentra nei meandri della letteratura orientale è quanto mai singolare: dopo aver sostenuto, nel capitolo precedente, che il Medioevo aveva visto scomparire il binomio vino-poesia il Caporali si corregge e ci spiega che, lontano dalla vecchia Europa assopita nel torpore religioso, fioriscono veri e propri capolavori in rima concepiti per celebrare il vino.
Abu Nuwàs e Omar Khayyàm sono due nomi che, per sua candida ammissione, il nostro autore ignorava alla stregua di Don Abbondio, con Carneade. Due fini poeti di cultura, lingua e religione islamica vissuti, tra VIII e IX sec.
Consapevole dei limiti imposti da un testo poetico in traduzione, per quanto fatta bene, la lirica di Khayyàm è per il Nostro una vera e propria folgorazione: per sua stessa ammissione è l’unica che davvero riesce a trasmettere l’idea di come il vino sia un unico eccezionale strumento per conseguire una illuminata e illimitata libertà dello spirito.
La domanda sorge spontanea: ma nella religione islamica il vino non era vietato? Corano alla mano, aiutato da amici e collaboratori madrelingua, il Nostro passa in rassegna tutto il testo sacro dei seguaci di Allah e ci comunica, senza nascondere meraviglia, che di vino si accenna soltanto in 3 dei 14 capitoli che compongono l’opera e in termini ambigui, mai del tutto univoci nella sua condanna.
Se Abu Nuwàs è da classificare come valido poeta, l’ignoto per molti di noi Omar Khayyàm è una specie di vate la cui tomba viene ancora venerata in un santuario presso Nishapur. Considerato da molti ateo, scrisse tantissimi versi per la maggior parte dedicati al vino, un mezzo, a parer suo per arrivare alla contemplazione estatica. Il messaggio di tutti i suoi testi si riassume in un “bevi e sii felice” che, a ben guardare, non è inedito ma incarna l’ideale oraziano del “carpe diem”.
Si evidenzia in questo modo come all’interno di una cultura totalmente diversa, a distanza di quasi mille anni e con un back ground ed un contesto del tutto estraneo sia stata concepita una stessa filosofia di vita, tutto questo grazie alla fonte d’ispirazione, il vino.
Capitolo 7 - I poeti medicei
L’imparzialità dell’autore ha ceduto: di fronte all’annosa rivalità, (vera o presunta?) tra Cecco Angiolieri e Dante Alighieri le simpatie del Caporali non potevano che andare allo scanzonato poeta senese.
L’Alighieri, infatti, si è macchiato di una grave colpa agli occhi del Nostro: non ha dedicato nemmeno un verso, o quasi, al prezioso nettare che la vite ci regala e che in Toscana, patria di entrambi, ha sempre dato il meglio di sé, fin dai tempi degli Etruschi. Oltre ad una motivazione di matrice letteraria che “vieta” ai poeti stilnovisti, di cui Dante faceva parte, di trattare argomenti troppo carnali, troppo densi di gusto, aromi, colori e troppo metafora del sangue come il vino, il Nostro fiuta motivazioni prettamente personali: Dante era sicuramente astemio e perseguiva un ideale di vita quasi ascetico. Lasciando da parte queste teorie letterarie, una cosa che appare inoppugnabile è l’antipatia e la rivalità tra il poeta fiorentino e quello scapestrato senese dell’Angiolieri i quali, probabilmente, si eran conosciuti durante la famosa Battaglia di Campaldino, lo scontro che nel 1289 oppose Guelfi e Ghibellini.
Nonostante il disonore enologico causato da Dante, Firenze viene riscattata da un altro grande poeta che di vino se ne intendeva: “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto sia: di doman non c’è certezza.” Questo il famosissimo incipit della Canzona di Bacco uno dei Canti Carnascialeschi di Lorenzo de Medici, detto il Magnifico, tutto dedicato all’esaltazione del vino. Oltre a questa celeberrima poesia, che in un opera dedicata al vino non poteva certo mancare, il Caporali riporta anche un estratto dal Simposio un poemetto in terzine dantesche scritto in giovane età come parodia della Divina Commedia. Il narratore se ne sta fermo sul ciglio della strada e descrive i personaggi che gli sfilano davanti: un silenzioso corteo di gente con un unica cosa in mente, il vino. Sono i grandi bevitori di Firenze tutti in marcia verso l’oste Giannesse che aveva appena spillato il vino dalla botte: durante il percorso, inoltre, il poeta approfitta per elencare le numerose taverne fiorentine e degli osti.
Tutta questa devozione per il vino, tale da divenire oggetto poetico, la si ritrova anche in uno dei più cari amici del Magnifico, nonché sommo poeta di quel periodo, il Poliziano. A chiusura di una delle sue opere maggiori, La fabula di Orfeo, egli inserisce un brano, noto come il Coro delle Baccanti in cui cerca di riprodurre in termini comico-grotteschi il modo di parlare di una persona ubriaca.
Quasi a voler ribadire il ruolo centrale giocato dal vino tra i poeti nella cerchia del Magnifico, il Nostro riporta anche un brano tratto dal poema Morgante di Luigi Pulci e ci fa notare l’evoluzione che la preziosa bevanda ha raggiunto in poetica: il vino è diventato, ormai, una sorta di prestigioso biglietto da visita in occasione di incontro all’osteria.
Capitolo 8 - “Il Ditirambo di Francesco Redi”
Superato lo scoglio degli astemi Stilnovisti, il Caporali riprende di slancio la sua narrazione e, pur consapevole che con la scomparsa di Lorenzo il Magnifico e del Poliziano la poesia difficilmente ritroverà simile vette, si avventura con una buona dose di ottimismo nel XVII secolo. Le poesie sul vino si sprecano e, in fin dei conti, sono anche di una qualità accettabile. Quello che però colpisce il Nostro autore è la loro estrema convenzionalità: i nomi dei vini citati, infatti, sono gli stessi che comparivano nei carmi latini del periodo classico. Sono vini che, ai tempi di Marziale, venivano prodotti tra il Lazio e la Campania, zone totalmente paludose nel 1600.
Esiste sempre, tuttavia, un’eccezione che conferma la regola: questo secolo “di maniera” è riuscito comunque a partorire il poeta del vino per antonomasia, Francesco Redi.
Autore di una ricca serie di opere in prosa e poesia è rimasto nella storia per il suo Ditirambo ovvero il poemetto dal titolo Bacco in Toscana. Il ditirambo, infatti, era nell’antichità il genere letterario specifico per i canti in onore di Dioniso. Un inno al vino di oltre mille versi è già importante di per sé, sottolinea il Caporali, ma lo è ancor di più se costituisce, come in questo caso, un prezioso documento sulla produzione di vino nella Toscana del XVII secolo e sulle conoscenze enologico-commerciali di quel tempo.
Il Ditirambo narra che Bacco, di ritorno dalle Indie si sia fermato a Poggio Imperiale, in Toscana vicino a Firenze e che qui, in una sorta di ideale degustazione, assaggi tutti i vini più noti del tempo ed emetta un conseguente giudizio. Man mano che procede la degustazione il dio diventa sempre più ubriaco e il Redi, sulla falsariga del linguaggio usato da Lorenzo de Medici nel suo Coro delle Baccanti lo manifesta per mezzo della parlata sconnessa.
La selezione fatta del nostro di brani dal Ditirambo è quantomai eloquente: una ventina di versi sulla degustazione e sul commento di Bacco sui vini di Montalcino, che non ne escono a testa alta; una bella tirata sull’acqua e sui medici che ne caldeggiano il consumo come fosse una panacea; lo sproloquio di Bacco ubriaco, abbastanza incomprensibile ma ugualmente divertente e il giudizio finale con la proclamazione del vincitore. A portarsi a casa la palma di vino migliore in assoluto è la zona di Montepulciano, gloriosa terra d’adozione e di appassionato lavoro di Giulio Caporali. Sembra quasi che il Nostro si rispecchi nel buon poeta del XVII.
Secolo di vacche magre per le poesie enoiche il 1700: menomale che il Parini, nella sua vastissima produzione, abbia dedicato qualche verso al dolce nettare e al brindisi, perché, stando a lui, quando non c’è più spazio per l’amore, oltre all’amicizia rimane soprattutto il vino a dare un senso alla vita.
Capitolo 9 - Gli ultimi eredi di Alceo: Giosuè Carducci e la Scapigliatura
Straordinaria coincidenza quella che vede nascere nella prima metà del 1800 un novello Alceo in una zona della Toscana oggi nota in tutto il mondo quasi esclusivamente per un vino. Non si sarebbe risparmiato, infatti, nel dedicargli una poesia piena d’ardore l’eloquente Giosuè Carducci, premio Nobel per la Letteratura nel 1906, se avesse assaggiato anche un solo goccio di Sassicaia.
Il Caporali apostrofa con gioia “novello Alceo” il poeta toscano in quanto la sua produzione pullula di poesie intitolate Brindisi e di inviti alla degustazione. Accompagnati per mano dal nostro mentore eno-poetico si scopre con piacere, infatti, che, oltre alle numerosissime poesie e componimenti di vario argomento presenti più o meno in tutte le antologie e nei libri di scuola ,c’è un altro Carducci, sempre genio compositore ma più vicino al nostro sentire.
Il Nostro sostiene addirittura che il vino nella poesia del Vate pur non essendo “il tema principale della composizione risulta tuttavia un importante comprimario”.
Dopo aver assaporato i vari “Brindisi letterari” selezionati dal Caporali non possiamo far altro che confermare il giudizio che lo assimila ad Alceo e sottoscrivere la sua dichiarazione iniziale secondo la quale per il Carducci ogni occasione è buona per brindare con un bicchiere di vino.
Tuttavia la vera perla rara della sua vasta produzione resta una breve poesia nota a chiunque conservi memoria dei banchi di scuola: San Martino.
Quattro brevi quartine dall’intenso potere evocativo che permettono di vivere quelle scene grazie alla forza delle immagini create dalla scelta delle parole. Il vino come elemento fondamentale e metafora del paesaggio toscano; il vino come “vita” della gente di questa regione, il vino che riempie di sé tutto l’ambiente e si trasforma nell’atmosfera stessa del componimento.
Il nostro viaggio dietro la guida eno-poetica Giulio Caporali sembrerebbe giunto al capolinea in quanto dopo un veloce accenno ad alcuni componimenti dedicati al vino dagli esponenti della corrente letteraria nota come Scapigliatura lombarda, contemporanei al Carducci ma di orientamento politico diverso, egli ci rivela che la poesia italiana del XX secolo volta le spalle all’argomento vino.
Capitolo 10 - “Il vino nella poesia dialettale”
Se credete che con i poeti italiani si chiuda definitivamente quest’avventura di brindisi in rima, sottovalutate la perizia filologica e la passione di Giulio Caporali. Si potrebbe quasi dire che proprio in chiusura venga il meglio. Il cru dell’eno-poesia si rivela nei vari idiomi dialettali che affollano la penisola italica. Sorvolando sull’ipotesi, alquanto peregrina, azzardata dal Nostro che vede la parola “vernacolo” derivare da “taverna”, tuttavia è chiaro che continua ad essere questa la fucina delle rime come accadeva nel Medioevo o nell’antica Roma.
In realtà un solo capitolo per esaminare la poesia dialettale dedicata al vino è un po’ poco e le rinunce nella selezione devono essere state dolorose. Privilegiando la qualità il Caporali trascrive, con tanto di traduzione in italiano, due componimenti del milanese Carlo Porta, tre brevi poesie del romano Giuseppe Gioacchino Belli, un sonetto in romanesco di Cesare Pascarella, ancora tre componimenti in romanesco del celeberrimo Trilussa, tre sonetti romagnoli di Lorenzo Stecchetti (al secolo Olindo Guerrini) e alcune spassose poesie di due poeti napoletani, Salvatore di Giacomo e Luca Postiglione.
Il vino, si sa, può rendere facondi ma anche irascibili: tra i 2279 sonetti del Belli, la scelta del Caporali è caduta su quelli scritti in occasione della pubblicazione di un provvedimento emanato dal Papato riguardo alle osterie, il provvedimento “dei cancelli”. Papa Leone XII, infatti, ordinò di collocare un cancello a tutte le porte delle numerose taverne cittadine, il quale pur impedendo alla gente di entrare e di fermarsi dentro a bere, consentisse tuttavia agli osti lo spaccio del vino attraverso le aperture dello stesso. Il Belli non perse tempo e si divertì non poco a sbeffeggiare il provvedimento e il suo ideatore.
Di stampo più raffinato i Brindisi composti dal Porta, uno dei più grandi amici di Alessandro Manzoni: prendendo come modello il Ditirambo del Redi egli compone ben 281 versi in occasione del matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. Senza fare riferimento al titolare originario del ditirambo, Dioniso, il poeta milanese dichiara la sua profonda avversione per l’acqua, elegge come re dei vini lombardi il Gattinara ed elenca le zone enologicamente più interessanti della regione.
Capitolo 11 - “Il brindisi di Violetta, l’Ode al vino di un premio Nobel e la poesia in un menù”
Si rivela degno di un romanzo il finale scelto dal Nostro per la sua opera e lascia a bocca aperta il lettore imprimendo un ricordo indelebile de I poeti del Vino.
Compiendo una vera e propria variatio alla sua narrazione egli improvvisa una fugace incursione nell’Opera lirica, che a ben guardare, altro non è che poesia in musica.
Nato alla fine del 1500 a Firenze, questo particolarissimo genere teatrale, ospita una miriade di esempi di odi dedicate al vino. Brindisi celebri infatti si celano tra le note della Traviata, dell’Otello, della Bohème, della Cavalleria Rusticana, della Tosca o del Don Giovanni. Tuttavia il il musicista “del vino” per eccellenza è Giuseppe Verdi che per la prolificità di inni e incitamenti alla bevuta viene affettuosamente definito “carducciano”.
Continuando a veleggiare sulla rotta dei fuoriprogramma, il Caporali ci regala un’altra emozionante “eccezione”: l’Ode al vino del Premio Nobel per la Letteratura Pablo Neruda. Dopo l’Ode all’anfora di Orazio, questo è l’unico componimento totalmente in lode ed esaltazione del vino, tratteggiato come elemento unificante e magico, ebbrezza di amicizia e splendore terrestre della vita e, soprattutto, come l’elisir che può introdurre l’uomo nel magico mondo dell’amore.

Gioia Bazzotti

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024