Il vino, storicamente, si colloca nello spazio del “superfluo” e del “festivo”, che il suo è un consumo, anche oggi e forse ancor più oggi, prevalentemente “cerimoniale”. La festa costituisce dunque il tempo privilegiato assegnato al vino per assolvere alla sua funzione, che difficilmente può essere ritenuta nutritiva, a meno di non voler parlare di “proteine simboliche”. Allora anche il vino nutre, in quanto catalizzatore e motore dello scambio sociale. Nell'immaginario antico l'introduzione della viticoltura e della vinificazione, già considerate dagli antichi Greci la soglia che separava il piano della natura da quello della cultura, veniva fatta coincidere con l'introduzione dello scambio e con la circolazione delle donne, con il passaggio da un regime matrimoniale endogamico ad uno esogamico. A sua volta, lo scambio è il principio della socializzazione: nel Mediterraneo si beve assieme e s’invita a bere, come si divide insieme il pane. Bere vino è un “bere bagnato”, per mezzo del quale si comunica.
Oggi, quanto più importante è l'occasione, tanto più importante deve essere l'etichetta della bottiglia. Letta in filigrana, dunque, la storia del vino lascia trasparire un legame con il dominio del simbolico, superiore a quello d’ogni altro prodotto dell'intelligenza umana; un legame che si è addirittura protratto più a lungo di altri nel tempo, se ancor oggi il vino è indispensabile in quell'atto simbolico che è la celebrazione della Messa cattolica, se ancor oggi, dovunque, anche là dove tradizionalmente si beve “asciutto”, le occasioni ufficiali prevedono la presenza di una pregiata bottiglia di vino, segno della diffusione di un modello culturale.
Insistendo nello spazio del festivo e del superfluo, il vino nel corso della storia si è caricato di valori abbastanza comprensibili. Per i Greci il vino era un pharmakon, una medicina ma anche un veleno, e per i Romani un venenum, un veleno come pure un filtro d'amore e non a caso essi lo collegavano a Venere. Nell'antica Grecia non era consentito bere il vino senza preliminari accorgimenti rituali e ad Atene il vino nuovo mai prima delle Antesterie, la festa dei fiori, sul far della primavera, in onore di Dioniso, il dio della metamorfosi e del disordine, della vite e del vino, con cui si identificava. Allora si sturavano le botti e i campioni di questo vino erano portati in un santuario di Dioniso, mescolati in giuste proporzioni con acqua, secondo il tipico costume greco, e offerti al dio. A questo punto gli uomini potevano dare inizio ai loro assaggi, dopo aver però chiesto a Dioniso che il suo uso fosse vantaggioso e senza danni; solo allora questa bevanda poteva entrare nei circuiti commerciali. Non diversa si rivela la situazione a Roma, dove il ciclo del vino si apriva coi Vinalia rustica del 19 agosto, posti sotto la tutela di Giove e di Venere - era una festa religiosa che segnava con prudente anticipo l'inizio della vendemmia. Si passava quindi attraverso i Meditrinalia dell'11 ottobre, che chiudevano la vendemmia e la pigiatura dell'uva, probabilmente una medicazione del mosto dopo la quale il vino era lasciato nei dogli a completare la vinificazione. Il ciclo infine si chiudeva con i Vinalia priora del 23 aprile dell'anno successivo, anche questi sotto la tutela di Giove e di Venere e ufficialmente destinati a liberare il “vino nuovo” a Giove, prima di immetterlo al consumo e consegnarlo ai circuiti commerciali. Se poi i Greci si preoccupavano di ottenere dagli dei gli strumenti e l'ausilio per evitare di perdere l'intelletto con il consumo del vino e di precipitare nella condizione di bestialità primordiale dalla quale li avevano allontanati proprio l'introduzione della cerealicoltura e della viticoltura, i Romani lo proibivano alle loro donne- che poi però bevevano tutti i vini trattati, come il vino passito! E il cristianesimo, che ha trasformato il vino nel sangue di Cristo, sacralizzandolo tanto quanto hanno fatto Greci e Romani, ha tuttavia ereditato questo atteggiamento, al punto che S. Gerolamo sosteneva che le giovani dovevano tenersi lontane dal vino come da un veleno. Egualmente a partire dal Medioevo l'uso profano del vino fu regolarmente preceduto da una “benedizione”, a cominciare da quella attribuita a Gregorio di Tours. Erano benedizioni che avevano per oggetto il vinum novum, cioè il vino non ancora entrato nei circuiti del commercio e del consumo e che per mezzo loro, prima di essere ammesso al consumo, doveva essere dunque desacralizzato. Ed ecco allora che un Sacerdotale della Val Pusteria del 1609 prevedeva addirittura un esorcismo per il vino, prima della sua immissione nei circuiti commerciali: “Io esorcizzo te, creatura del vino, nel nome di Dio onnipotente e per la maestà del tuo creatore, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, perchè da te sia allontanata ogni infestazione diabolica e tutto ciò che è dannoso alla salute dell'uomo...”
Il vino, l’olio ed i cereali hanno marcato la civiltà mediterranea. Ed il vino, in particolare, è stato l'etichetta (o, se preferiamo, il marchio di denominazione d’origine), allorchè il mondo antico è entrato in contatto e poi si è scontrato con la civiltà della carne e della birra, proveniente dal Nord, che beveva “asciutto” e che usava il lardo là dove il mondo mediterraneo usava l'olio. Fu questa la delineazione di due mappe culturali, in conflitto tra loro ma che presto, nell'Italia settentrionale, diedero origine ad una sorta di pacifica convivenza, alternandosi in cucina. Nondimeno, nel momento in cui, nel Medioevo, il consumo di carne divenne esso pure ostentazione di status, in quanto la carne era il cibo dei “signori”, il lardo, promosso dai nuovi potenti del Nord, entrò prepotentemente in cucina e iniziò così una sorta di guerra tra olio e lardo che si perpetuerà nel corso dei secoli, una guerra scandita dalla tradizionale “battaglia di Quaresima e Carnevale”, dove combattevano, quali guerrieri dell'una fazione legumi, erbaggi, pesci e, ovviamente, l'olio, e dell'altra insaccati, carni varie, latticini e il maiale, “signore” del lardo. In ogni caso l'olio non piace ai palati settentrionali.Ma è il vino a portare un “nome” fin dall'antichità. Marcatore sociale al punto che nell'Egitto ellenizzato era la bevanda dei ricchi, mentre la birra era quella dei poveri, come tale il suo consumo si è protratto nel Medioevo. A partire poi dalla metà del sec. XVII il nome del vino diventa un ulteriore indicatore di status, quando in Inghilterra i vini prodotti nella Champagne conoscono una gran popolarità tra i nobili. Scoperto che quei vini, dopo qualche mese di riposo in bottiglia, sviluppavano una certa effervescenza, essi divennero immediatamente molto richiesti da chi era in grado di sostenerne la spesa. Il nome, che nell'antichità individuava anche le caratteristiche e la qualità del prodotto - si pensi alla “carta dei vini” fornita da Ateneo nel I libro dei suoi Filosofi a banchetto: il Falerno, il Cecubo, il vino di Chio, di Prammo, ecc. -, un nome che è sempre un nomen loci, non una generica indicazione geografica, ma una precisa localizzazione topografica, come ancor oggi è costume prevalente, il nome, dunque, è stato sempre collegato con la storia peculiare dei diversi territori di produzione e ha individuato i consumatori, è stato cioè marcatore culturale e sociale. Il nome si rivela così un principio d’individuazione, come nel caso della classificazione di Catone, che distingueva il vino per gli schiavi, da quello per i domini, i padroni, o come in quello del vino per la “festa”, la bevanda delle élites sociali nell'Europa settentrionale durante il Medioevo, sino alla distinzione tipica nella Francia del sec. XVIII tra grands crus e vins populaires. A partire dalla rivoluzione tecnologica francese dei secc. XVII e XVIII, quando il metodo scientifico entrò prepotentemente nella vinificazione e si diffusero i vini di Bordeaux, altro nomen loci, il nome del produttore cominciò ad affiancare quello del vino. Ed oggi è ancora il nome che individua il prodotto, le sue qualità e la condizione del consumatore. Nell'epoca della globalizzazione è difficile prefigurare scenari in cui il vino sia un marcatore culturale a difesa della tipicità, marcatore sociale a gratificazione delle aspirazioni e delle ambizioni sociali dei consumatori, e contemporaneamente oggetto di un consumo senza confini. Il vino, in ogni caso, resta il segno inequivocabile di un’identità culturale e tradizionale di un popolo, un segno che la storia ci ha consegnato e la sua difesa coincide con la difesa dell’identità.
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