Che il vino entri da protagonista (oltre che da ispiratore) nella letteratura di ogni tempo non è una scoperta: se si parla di bevute “omeriche” un motivo ci sarà. E non è un’accusa di troppa propensione ad alzate di gomito verso il mitico aedo cieco, ma il riconoscere la sua efficacia nel descrivere l’umanità con una coppa in mano.
Il convivio, soprattutto nella società di allora, rappresenta il punto in cui confluiscono molte cose, dal buon operato politico all’adempimento dei sacri doveri nei confronti della famiglia e dei concittadini. Il convivio è il momento del racconto, dell’onorare le azioni dei vivi e ricordare quelle dei morti.
Le indicazioni suggerite nell’Iliade sono chiare: chi mangia e beve bene deve combattere bene, non si può essere primi nelle libagioni ed ultimi in campo. Una sorta di connotazione guerriera che in qualche modo si tramanda nei millenni, visto che, tanto per citare un esempio, Pushkin narra come nel contesto della Russia ottocentesca gli ufficiali dello Zar si facessero un punto d’onore dell’essere grandi bevitori, ma di classe. Lo Champagne scorreva a fiumi, magari costringendo a far debiti per non rinunciarvi, e nell’iconografia guerriera del tempo i cannoni erano spesso a fianco delle botti di vino.
Ma le libagioni descritte da Omero, nell’Odissea, cambiano di molto rispetto a quelle dell’Iliade: da brindisi di sfida guerresca diventano momenti di nostalgia per la casa lontana, di recupero dei valori della pace. Un sentimento è comunque comune in guerra ed in pace: la riprovazione per l’ubriaco, tanto era invisa la condizione in cui l’uomo lascia che il vino spegna la scintilla della ragione. Infatti l’ubriaco che dai versi di Omero emerge a monito degli uomini civili è Polifemo, gigante primitivo e brutale, punito dalla sua ingordigia bestiale, che diventa l’arma vincente nell’astuta mente di Ulisse.
E di altri giganti famosi bevitori racconta Rabelais. Gargantua, la cui illustre genealogia fu trovata in una grande tomba di bronzo sul cui coperchio c’era scolpito un boccale e la scritta “Hic bibitur”. E Pantagrulele, il cui nome, spiega Rabelais, significa “tutto assetato”. Non a caso il dotto autore fa affermare a questa sua creatura letteraria: “con l’aiuto di Bacco si levano inalto gli spiriti degli umani e i loro corpi sono evidentemente ravvivati e reso più agile quanto vi era in essi di terrestre”.
Il vino è anche elemento ricorrente in racconti nè epici, nè giocosi, come quelli di Edgar Allan Poe, ispirati dall’allucinazione, quasi sempre macabra, di questo grande della letteratura ottocentesca americana. Così la resurrezione di “Ligeia” avviene tramite l’offerta di una coppa di vino, ne “Il Re Peste” allucinati convitati al banchetto del contagio bevono vino rosso sangue in coppe ricavate da crani umani (e come non trovare una qualche analogia con Rosmunda?). Ed il vino è esca di un delitto tenebroso ne “La barrique di Ammontillado”, in cui l’assassino attira l’ignara vittima nella cantina e lo stordisce con libagioni sempre più invitanti per spingerlo alla ricerca del prelibato Ammontillado, al posto del quale troverà la morte.
Per concludere un altro americano, solare come la sua California: John Steinbeck.
Nelle sue storie i “paisanos” di “Pian della Tortilla” sempre a corto di soldi, trovano i mezzi più fantasiosi per riempire il bicchiere: “aveva un bernoccolo speciale per barattare in vino qualunque cosa gli capitasse tra le mani”, scrive il premio Nobel per la letteratura raccontando uno dei suoi personaggi. E la filosofia di questi scanzonati vagabondi è semplice: «Fare all’amore, attaccar briga e avere un po’di vino ...Uno è sempre giovane, allora, sempre felice». Mentre nel drammatico “Furore”, in cui i coloni disperati non possono vendere l’uva perchè il prezzo è troppo basso, Steinbeck scrive: “Nei cuori degli umili maturano i grappoli del furore e s’avvicina l’epoca della vendemmia”. C’è anche il vino come indicatore di uno stato sociale, così le ragazze del bordello di Monterey studiano caratteristiche e disposizione dei bicchieri per non sfigurare nel caso fossero riuscite ad accalappiare con un matrimonio qualche borghese e mandano a memoria: “Vino bianco ... Bordò ... Borgogna ... Porto ...”. Il vino è il balsamo che conforta ogni dolore, rimedio ad ogni bruttura: dopo la sbornia “E’tutto santo, tutto, persino io”, si legge ancora in “Furore”.
Forse, a ben pensarci, se si ripercorrono le pagine scritte da Steinbeck a partire da settant’anni fa l’attuale successo dell’enologia californiana non stupisce più di tanto.
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