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L’ULTIMA CENA? UNA “GRANDE ABBUFFATA” PER GLI APOSTOLI: E’ LA SCOPERTA “PROVOCATORIA” DI DUE RICERCATORI AMERICANI DELLA CORNELL UNIVERSITY E DEL VIRGINIA WESLEYAN COLLEGE

Anno dopo anno, giovedì Santo dopo giovedì Santo, gli apostoli scoprivano il piacere della carne. Anzi, della carne no, perché è pur sempre periodo di consigliata astinenza. Ma il punto è proprio questo: astinenza, intesa dalle carni, certo, ma di digiuno sempre meno. Quello semmai è per il venerdì di Passione, mentre il giovedì a cena c’é libertà di dieta. E gli apostoli, negli anni, questa libertà praticavano con larghezza, tanto che, alla fine, l’Ultima Cena è diventata una “grande abbuffata”, un Pranzo di Babette. La verità, scomoda e forse di parte, l’hanno scoperta due studiosi americani, due fratelli che rispondono al nome di Brian e Craig Wansink, ricercatori rispettivamente della Cornell University e del Virginia Wesleyan College.
Con lavoro paziente e certosino sono andati a studiare le testimonianze più concrete della sera in cui Cristo spezzò il pane e versò il vino. Che non sono i Vangeli canonici, ma le sacre rappresentazioni pittoriche: 52 affreschi e quadri eseguiti dall’Anno Mille in poi, in media uno ogni vent’anni, sono stati osservati, scandagliati, passati al setaccio dell’iconografia e delle scienze storiche sociali. I risultati sono stati affidati ad un lungo articolo pubblicato dall’International Journal of Obesity. E questa è la conclusione: più passa il tempo, più gli apostoli mangiano. Lo si evince dalle porzioni nei piatti.
“Le entrate rappresentate nel corso dei secoli all’interno dei piatti posti di fronte a Cristo ed ai discepoli sono aumentate del 70%, e le porzioni di pane sulla tavola del 23”, spiegano i due fratelli con precisione quantitativa tutta materialistica. Vale a dire che, rispetto alle porzioni da ascesi assunte alle origini, ora gli Apostoli sfoderano un appetito da racconti di Canterbury. Domanda: ma come è possibile quantificare una cosa così aleatoria? Risposta: facile, grazie ad un calcolo proporzionale tra le dimensioni delle teste (che restano costanti nel tempo) degli apostoli e quelle dei piatti, e poi tra quelle dei piatti e del cibo che li riempie. L’unica cosa che resta impossibile è il calcolo dell’apporto calorico oltre che, logicamente, la qualità. Ma si sa che, per dei poveri pescatori d’epoca romana, non erano questi i criteri che contavano. Il primo a dipingere cibo in quantità fu, scrivono i Wansik, Leonardo da Vinci. Quello in assoluto più generoso con i commensali Tintoretto. Nessuno è mai arrivato, però, a trarre le inevitabili conseguenze iconologiche di tanta sovralimentazione. Forse lo farà Botero.
Fonte: Agi

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