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VERSATILITÀ: ECCO LA “CHIAVE” DELLA CUCINA DI DOMANI. LO DICONO ESPERTI E RISTORATORI NEL FOCUS DI CONTADI CASTALDI, CHIAMATI A RACCOLTA DA GIACOMO MOJOLI (POLITECNICO DI MILANO): “DOBBIAMO GUARDARE CON OCCHI DIVERSI QUELLO CHE GIÀ ABBIAMO”

L’unica certezza è che di certezze ce ne se sono poche, e che, anche nella ristorazione italiana, molto è destinato a cambiare. Ma se negli ultimi 20 anni la parola guida è stata “territorio”, che ha segnato la cucina, la ristorazione e anche la comunicazione enogastronomica, quella del futuro può essere “versatilità”. Un termine vago, a cui si è iniziato a dare un contenuto delineato nel focus “La versatilità: difficile a farsi”, di scena nella cantina franciacortina di Terra Moretti, Contadi Castaldi, da un’idea di Giacomo Mojoli, del Politecnico di Milano.
“Dobbiamo guardare con occhi diversi quello che già abbiamo”, ha spiegato Mojoli, che ha chiamato a raccolta 50 delle più prestigiose osterie del Belpaese e autorevoli personaggi del wine & food italiano. Per Oscar Farinetti, patron di Eataly, in tempi in cui “andiamo verso una vera e propria rivoluzione, che secondo me, temo, vivrà anche forti tensioni sociali, versatilità vuol dire pensare locali per tutti, dove non ci sia il “vietato a” implicito per qualche categoria, di reddito, sociale o etnica che sia. Ma anche puntare sulla trasparenza, perché se è vero che il prezzo di un bene è fatto di una parte materiale e una immateriale, che comunque è importante ma va trasmessam nei prossimi anni il cliente sarà molto più attento all’aspetto materiale che immateriale”. Ovvero al rispetto della materia prima, come testimonia il successo di due pugliesi, Pietro Zito e Peppe Zullo, che curano due orti per i loro ristoranti (Antichi Sapori di Andria e Piano Paradiso a Orsara). E proprio l’orto può essere un paradigma della versatilità: riporta ai tempi della natura, alla cultura del tempo del lavoro, stimola la creatività dello chef che deve inventarsi qualcosa con quello che quel giorno c’è di disponibili, e “quando i clienti percepiscono cosa c’è dietro la materia prima - spiegano Zito e Zullo - il lavoro che la porta intavola, impazziscono anche per una semplice frittata con erbe spontanee”. Semplicità, dunque, ma perché non diventi banalità serve studio e conoscenza.
€ Ovvero cultura, ma anche rispetto della natura, come spiega Paola Gho, curatrice della guida “Osterie d’Italia” di Slow Food. “È difficile trovare un’altra idea che abbia la potenza trasversale che ha avuto quella di “territorio”, che peraltro ha ancora tante carte da giocare. La cucina delle nonne e delle zie sta passando nelle mani delle giovani generazioni, ma servono idee forti, altrimenti si corrono grandi rischi, contaminazioni poco intelligenti. La versatilità può essere il denominatore comune per le tante cucine, metodologicamente valida per futuri incerti ai quali siamo davanti. Ma è soprattutto un atteggiamento mentale, per correggere integralismi, smussare i contrasti. E deve tenere conto della tendenza che chiama in causa la naturalità, valorizzando un alimentarsi i maniera pulita, salubre, e con trasparenza, tracciabilità, stagionalità. Ma senza integralismi”. Integralismi, che nascondo la paura del diverso, come spiega Vittorio Castellani, alias Chef Kumalè: “nelle nostre cucine stanno entrando tanti stranieri, bisogna capire come affidargli e trasmettergli i nostri saperi perché non vadano persi, e perché si innovino con contaminazioni intelligenti. Anche perché si corre il rischio di un’alleanza perversa tra gli xenofobi e gli ortodossi del made in Italy, per barricarsi dietro la tipicità e un’identità che però è profondamente “mutante”. La storia alimentazione è frutto di incontro e di scambio, è un fenomeno inarrestabile”.
E, in fondo, lo dimostra anche l’evolversi del concetto di tradizione: “negli ultimi 20 anni l’obiettivo era “inventare” una tradizione”, dice provocatoriamente Alberto Capatti, rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. “Dico inventare, perché tutta la vera storia agroalimentare è stata accantonata per far posto a un concetto antistorico, quello di tradizione, che è servito per emarginare il discorso sulla modernità alimentare. Un discorso iniziato nel 1992 con la legge che tutela i prodotti Dop e Igp. Per essere tutelato, un prodotto deve avere un dossier che considera i sui ultimi 20 anni di storia, e quindi abbiamo dossier su cibi che di storico, nel senso di antico e radicato, hanno poco. E quindi qual è il nostro futuro? Di certo non il passato, che se non si riprende con chiavi storiche e rigorose, ci porta ad affidarsi a scenari di seduzione, immaginazione che difficilmente saranno utili”.

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