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LA “GIOVANE ITALIA” DEL VINO COGLIE LA DEFINITIVA AFFERMAZIONE INTERNAZIONALE NEL NUOVO MILLENNIO: LA STORIA DEL VINO NEI 150 ANNI, COMPIMENTO DEL SOGNO DI CAVOUR-RICASOLI. PERCORSO NELLA BREVE E INTENSA STORIA DEL VINO TRICOLORE ... LE CIFRE DI OGGI

Italia
Da Cavour e Ricasoli ai giorni nostri ... La storia del vino italiano

Sono molte le sollecitazioni storiche che stimola il Vinitaly 2011 (Verona, dal 7 all’11 aprile), uno degli eventi di riferimento del mondo del vino internazionale, nell’edizione che celebra i 150 anni dall’Unità d’Italia. La “giovane Italia” del vino, per riprendere il nome dell’associazione di patrioti fondata da Giuseppe Mazzini, ma anche per sottolineare la gioventù del fenomeno vino made in Italy, trova l’occasione di ripercorrere la sua storia, condensata nel sogno di grandezza di pionieri quali Camillo Benso Conte di Cavour e Bettino Ricasoli, artefici dell’Italia unita e di un disegno complessivo per il vino italiano che, dopo un percorso articolato e non privo di difficoltà, proprio nell’attualità trova il suo compimento definitivo.
La fotografia del panorama enologico del periodo in cui l’Italia diventò una sola nazione racconta di un territorio favorevole alla coltivazione della vite, ma dove ancora primeggiava una viticoltura promiscua, tecniche di vinificazione imperfette, e che al tempo esportava appena l’1% della sua produzione (l’export era rappresentato in pratica solo da vini dolci), mentre il resto della produzione era costituito da vini da taglio (circa 30 milioni di ettolitri), contro i 6 milioni di ettolitri di vini di qualità esportati dalla Francia. Le cronache del tempo ci raccontano che nel 1861, a Firenze, alla presenza di Re Vittorio Emanuele II, si tenne la prima Esposizione Nazionale dell’Agricoltura, dove, nella sua relazione, Adolfo Targioni Tozzetti rilevava che il vino italiano non riusciva “a condurre i vini alla finezza che il commercio pregia conservando loro, o imprimendogli alcun carattere proprio, per cui formino sui mercati una distinta legione”.
Eppure, proprio degli imprenditori agricoli riformatori, Camillo Benso Conte di Cavour e Bettino Ricasoli, uomini che avevano a cuore l’agricoltura e la produzione vitivinicola dei rispettivi luoghi d’origine, misero le basi per un progetto ben preciso per il vino tricolore. Entrambi ritennero che i tempi fossero ormai maturi per l’abbandono di un’agricoltura improvvisata e che la stessa viticoltura ed enologia dell’Italia unita sarebbe ritornata ai fasti dell’antica Enotria, producendo vini in grado di affrontare la concorrenza con quelli francesi e capaci di rappresentare il “biglietto da visita” dell’Italia negli scambi internazionali. Il vino come prodotto simbolo per l’export, dunque, capace di simboleggiare la storia e la cultura di tutto un popolo. Un altro “Risorgimento”, in altre parole, quello dell’antica Enotria, che ha camminato parallelamente a quello della riscossa nazionale, giungendo a compiere la sua parabola nella contemporaneità dei successi del vino italico.
Un percorso articolato, difficile e impegnativo, ma capace di produrre una delle realtà più importanti del nostro made in Italy. L’economia agricola dell’Italia post-unitaria, infatti, non riuscì nel breve periodo ad affrancarsi totalmente dai vecchi schematismi, e la produzione agricola, compresa quella enologica, la trasformazione industriale e la commercializzazione restavano ancora strettamente collegate tra loro: una separazione funzionale restò solo un orizzonte. In generale, le antiche famiglie nobili, che storicamente producevano vino, continuavano a concentrare la loro attività attorno ad una commercializzazione diretta nelle loro fattorie o nei punti vendita delle città più vicine. Nel frattempo, però, si faceva sempre più strada la convinzione che, per affrontare la lunga e difficile sfida con i vini francesi nei mercati internazionali, occorresse una qualificazione del prodotto, cercando di arginare la profonda arretratezza nella coltivazione della vite e le scarse conoscenze enologiche, diffuse nella maggioranza dei contadini e dei fattori, attori principali della filiera del tempo. Cominciò ad emergere il ruolo dei commercianti di vino che, favoriti dall’espansione dei consumi, diventarono sempre più importanti. Il Governo, dal canto suo, dimostrò un’attenzione crescente verso il vino del Belpaese, istituendo l’insegnamento della viticoltura e dell’enologia in cinque scuole speciali (Conegliano, Avellino, Catania, Alba e Cagliari).
Se il vino al momento dell’Unità copriva una quota trascurabile nelle esportazioni, negli ultimi decenni del secolo XIX aveva superato la percentuale del 6% delle esportazioni italiane. La produzione vinicola italiana negli anni ’70 dell’Ottocento si era attestata sui 27 milioni di ettolitri, in tendenziale crescita, favorita anche dagli effetti della fillossera, specialmente in Francia, che dettero una decisiva spinta alla viticoltura del nostro Paese, in regioni quali Puglia, Sicilia, Calabria e Piemonte, portando, nel breve spazio di un decennio, ad una produzione di circa 37 milioni di ettolitri. La fillossera colpì l’Italia in ritardo, interessando specialmente le regioni dove si praticava una viticoltura specializzata, e continuò a fare danni anche dopo la Prima Guerra Mondiale.
La ricostruzione del patrimonio viticolo italiano fu lunga e difficile, ma impose una conduzione dei vigneti più rigorosa e meno improvvisata, anche se la storica arretratezza agricola dell’Italia non venne sconfitta, neppure dal Fascismo, che, anzi, non favorì, per quanto riguarda l’industria enologica, l’impianto esteso della viticoltura specializzata, perché avrebbe messo in discussione gli equilibri generali del sistema agricolo. La produzione vinicola negli anni ’40 era, insomma, basata ancora su due grandi fasce. Quella dei vini eterogenei, poco tipicizzati e destinati al consumo diretto del contadino oppure al commercio locale, e quella dei vini tradizionalmente apprezzati nei mercati interni ed esteri, prodotti in zone più o meno precisamente definite, con tecniche più accurate e ottenuti da uvaggi determinati.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nelle campagne dell’intera Penisola si manifestarono evidenti sintomi di crisi economico-sociale, destinati a cambiare radicalmente l’assetto agricolo dell’Italia. Cambiamenti che interessarono sia le superfici coltivate e la loro utilizzazione, sia le strutture aziendali e le forme di conduzione, mentre nel Paese si verificava il passaggio epocale, fra anni Cinquanta e Sessanta, da una società prevalentemente agricola ad una industriale. Il settore vitivinicolo, come il resto dell’agricoltura, entrò in crisi, i prezzi dei vini ebbero una notevole flessione e, all’orizzonte, i consumi pro-capite cominciarono a flettere. Solo una progressiva modernizzazione, se pur non omogenea, dette una spinta alla viticoltura specializzata contro quella promiscua, mentre le tecniche agronomiche ed enologiche si raffinarono in misura non trascurabile, insieme alla comparsa di nuove realtà produttive come le cooperative. Negli anni ’70 del Novecento comincia un processo di graduale e generalizzata diminuzione dei vini di basso livello qualitativo e di modifica delle principali caratteristiche organolettiche, per adeguare i prodotti del Belpaese alla evoluzione delle esigenze dei mercati nazionali ed esteri, non ancora accompagnato, però, da un adeguato cambio di passo nelle tecniche viticolturali e di cantina. Soltanto con gli anni ’80 del Novecento, anche su questo fronte le cose cambiarono decisamente, ma purtroppo il virtuoso cammino dell’enologia del Belpaese si arrestò con la tragedia del metanolo (1986), che segna un vero e proprio spartiacque fra il prima e il dopo.
Il dopo metanolo è una delle più straordinarie riscosse dell’economia italiana, portata avanti da una classe imprenditoriale decisa non solo a cancellare gli effetti di quella tragedia, ma a portare il vino italiano nel gotha dell’eccellenza qualitativa mondiale. In poco meno di trent’anni il mondo del vino italiano compie una “traversata nel deserto” senza precedenti, un balzo clamoroso sia dal punto di vista dell’immagine sia da quello qualitativo e competitivo, raggiungendo e, talvolta, superando gli standard dell’enologia francese.
La visione di lunga portata di Cavour e Ricasoli trova finalmente la sua concretizzazione. E, proprio oggi, in un momento di crisi economica globale, coglie una conferma quasi profetica nei risultati raggiunti dai vini italiani nelle maggiori piazze internazionali, con le nostre etichette a svolgere il ruolo, ormai consolidato, di colonna portante del made in Italy nel mondo. Un sogno durato un secolo e mezzo, alla fine del quale il vino italiano trova la sua collocazione epocale, confermandosi proprio nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia come cardine di quell’economia agricola evoluta e moderna, disegnata dal progetto pioneristico di quei padri della patria.

Focus - I numeri del vino nel 2010
Produzione vino: 45,5 milioni di ettolitri
Superficie destinata alla produzione di uve da vino: 702.000 ettari
Strutture produttrici di uve: 450.000
Imbottigliatori: 25.000
Doc/Docg (Dop): 386
Igt (Igp): 118
Consumo pro capite annuo: 43 litri
Crescita percentuale dell’export in valore: 8,1%
Crescita percentuale dell’export in volume: 9,8%
Valore complessivo export: 3,8 miliardi di euro
Volume complessivo export: 22 milioni di ettolitri
Valore al litro del vino italiano esportato: 1,8 euro
Fonte: elaborazione Winenews su dati Assoenologi

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