Avere 120 anni, non sentirli e avere voglia di guardare al futuro: ecco Assoenologi, che nel suo Congresso n. 66 ad Orvieto, ha celebrato il suo passato (è l’organizzazione di categoria più antica del mondo) ma, soprattutto, guardato al futuro. Che per il vino italiano, sempre più in declino nel consumo interno, vuol dire soprattutto vendersi all’estero. Ecco perchè l’organizzazione diretta da Giuseppe Martelli ha dedicato parte dei suoi lavori proprio a tre dei mercati più importanti per l’Italia, perchè consolidati, come gli Stati Uniti, o perchè con grandi potenzialità di sviluppo, come Cina e Russia. Paesi in cui il nostro vino può ancora crescere tanto, ma solo se, però, ne affronta bene le specificità. Se negli Usa, per esempio, dove l’Italia è il paese leader dell’export, il 75% del vino consumato è californiano, il consumatore beve ancora relativamente poco (9 litri procapite), e il prezzo medio finale di una bottiglia italiana è di 7 dollari. “Ma tutti questi fondamentali sono in crescita da anni, quindi le prospettive sono più che positive - ha spiegato Leonardo Lo Cascio, alla fuida di WineBow, tra i più imporanti importatori di vini italiani in America - anche se bisogna tener conto di alcuni aspetti che frenano un pò lo sviluppo, come la diminuzione del numero dei distributori, passati da 7.000 a 700 in 20 anni, con i primi 5 che hanno in mano il 50% del mercato. O con il fatto che ogni Stato (sono 50) ha la sua legge in materia, a volte non si dialoga con imprese autorizzate ma direttamente con il monopolio, e il vino non può essere venduto nei supermercati, ma solo in ristoranti wine bar ed enoteche”. Situazioni che, se cambiassero, darebbero una spinta incredibile ad un mercato già di grande successo.
Ma anche in Russia le prospettive sono positive: “il vino italiano è sempre più polorare perchè associato al life style e alla cucina italiana, e i tanti turisti russi che vengono in italia poi ricercano i vostri vini in patria” spiega Irina Femina di Mgb-Wine, tra i leader delle importazioni enoiche nel Paese. Ma anche qui di lavoro da fare ce n’è: detto che sono più le donne a bere vino (39%) che gli uomini (11%), e che il mercato degli alcolici è dominato da birra e vodka, l’import italiano è cresciuto dal 7,31% del 2009 al 31,31 del 2010, con un valore di 104 milioni di euro, e nel 2012 dovrebbe crescere del 24%. Una crescita da inseguire non puntando più solo sul rapporto qualità prezzo, ma anche raccontando ai consumatori le storie e i valori da cui nascono i nostri vini, “perchè è per quello che i russi sono disposti a spendere”, spiega Femina. Anche perchè su 350 milioni di bottiglie italiane consumate, 240 sono nella fascia di prezzo tra i 3 e i 7,5 euro, ed è anche sulla crescita in valore che si deve lavorare.
E poi c’è la Cina, la grande ma complicatissima promessa, dove il vino italiano può ancora crescere tantissimo ma dove ha a che fare non solo con i vini di Francia, ma anche con quelli di Cile e Australia che la incalzano da vicino, e con 2 criticità spesso non considerate, come racconta il broker vinicolo Maurizio Conz: “la grande distribuzione in Cina è in gran parte straniera e non italiana, e tanti player comprano vino italiano per farne private label e, quindi, di fatto, snaturano il prodotto, non danno valore all’italianità. L’altra è che i flussi turistici della cina fanno tutti scalo su Parigi o Francoforte, di solito si passa in Italia per una 2 giorni di acquisti e via”. Quindi il vino italiano può contare meno su uno dei suoi alleati più forti, ovvero i turisti, come nel caso di americani e russi, che quando toccano con mano lo stile di vita italiano, di cui il vino è sicure protagonista, diventano i primi ambasciatori dei nosti vini nei loro Paesi.
Info: www.assoenologi.it
Focus - L’analisi del dna svela la “carta d’identita” dei vitigni italiani nel vigneto. Ma il dna del vino in bottiglia resta ancora un target per la ricerca. La nuova frontiera della viticoltura di precisione? L’analitica non distruttiva
La domanda è sempre la medesima, intrigante e, apparentemente, semplice: è possibile stabilire la corrispondenza tra il vitigno indicato in etichetta e quello da cui proviene il vino contenuto effettivamente nella bottiglia? La risposta, che, evidentemente ha molte e significative ricadute sull’intero comparto vitienologico, è stata data nel corso del Congresso di Assoenologi ad Orvieto, edizione n. 66, durante la sessione dei lavori appositamente dedicata e che ha visto gli interventi di Luigi Bavaresco, direttore del Centro Ricerca in Viticoltura di Conegliano (Metodi Innovativi per riconsocere i vitigni nel vigneto), Fulvio Mattivi, ricercatore Fondazione Edmund Mach - Istituto San Michele all’Adige (Metodi innovativi per riconoscere i vitigni nei vini).
Non solo rilanciando l’esigenza di tracciare una sorta di “carta di identita” dei vini a tutela della produzione nazionale, ma anche facendo il punto sullo “stato dell’arte” della ricerca su questo delicato argomento.
Le nuove frontiere che la conoscenza e lo studio del Dna mettono a disposizione del ricercatore sono decisamente interessanti, ma “l’analisi del Dna dà puramente delle informazioni sull’origine della materia prima - spiega Fulvio Mattivi ricercatore Fondazione Edmund Mach - Istituto San Michele all’Adige - e non dà informazioni sulla qualità o su altri aspetti. In generale, è forse più facile immaginare che i controlli su base chimica, specialmente quelli che analizzano un numero ampio di metaboliti, riescano a stabilire la corrispondenza tra il vitigno indicato in etichetta e quello da cui proviene il vino contenuto effettivamente nella bottiglia. Non solo, queste metodiche analitche possono anche rilevarsi ottimi strumenti per il controllo della qualità e sono quindi più facilmente inseribili nella routine delle analisi tradizionali sui vini. Dal punto di vista della certezza legale - aggiunge Mattivi - è chiaro che la messa a punto di analisi robuste sul Dna è assolutamente auspicabile, perché solo con questo metodo possiamo ottenere informazioni sicure sull’origine varietale”. Attualmente però “il Dna del vino invecchiato resta un target per la ricerca, ma ancora non possiamo contare su risultati e metodiche completamente affidabili. Certo, dal punto di vista qualitativo i risultati sono buoni, ma quantitativamente i margini di errore sono ancora troppo elevati. Siamo in presenza - aggiunge il ricercatore - di una nuovo frontiera tecnicamente possibile ma non banale e, allo stato attuale, non disponiamo di sistemi molecolari applicabili a qualsiasi vino. Per mettere a punto tali strumenti è necessario un impegno collaborativo congiunto tra i diversi attori della filiera vitivinicola e degli organi di controllo - conclude Mattivi - e allo stesso tempo si deve lavorare alla realizzazione di metodologie di analisi di valenza più generale”.
Se determinare la corrispondenza tra il vitigno indicato in etichetta e quello da cui proviene il vino contenuto effettivamente nella bottiglia resta ancora un obbiettivo scientifico da raggiungere, sebbene ormai la ricerca lo collochi assolutamente alla portata, la determinazione del vitigno che si trova in un vigneto sembra ormai un traguardo già raggiunto “il riconoscimento del vitigno nel vigneto oggi è raggiungibile con un buonissimo margine di sicurezza - spiega Luigi Bavaresco direttore del Centro Ricerca in Viticoltura di Conegliano - mediante le moderne tecniche di analisi del Dna. Un po’ più problematico resta il riconoscimento dei cloni, perché la variabilità genetica che troviamo tra i cloni di un medesimo vitigno spesso è molto picocla e, talvolta, non è possibile cogliere quelle zone di Dna che sono veramente diverse. C’è quindi bisogno - prosegue Bavaresco - di affinare ulteriormente le tecniche a disposizione, ma ritengo che nel prossimo futuro riusciremo ad avere un metodo affidabile per caratterizzare dal punto di vista genetico anche i cloni”.
Ma Assoenologi ha voluto anche dare uno sguardo agli sturmenti impiegati per un sempre più puntuale controllo della produzione sia in vigna che in cantina con gli interventi di Fabio Mencarelli, docente di enologia dell’Università della Tuscia di Viterbo (Controllo e gestione della qualità nel vigneto con detector ottici) e Tommaso Bucci, direttore tecnico di Castello Banfi (L’applicazione di nuovi metodi per il monitoroaggio a distanza della qualità del vino in cantina).
“Per avere una mappatura effettiva della qualità delle uve di un vigneto - spiega Fabio Mencarelli, docente di enologia dell’Università della Tuscia di Viterbo - è ovvio che se ricorriamo ai sistemi tradizionali dell’analitica chimica, i tempi e i costi saranno particolarmente lunghi e alti e lo stesso campionamento sarà ridotto”. La viticoltura di precisione rappresenta quindi la nuova frontiera in tema di controllo qualitativo delle estensioni vitate però “il telerilevamento dall’alto per quanto molto affascinanate - sottolinea Mencarelli - ha una capacità di rilevare l’effettiva qualità delle uve molto pretestuosa, per cui bisogna assolutamente andare a vedere direttamente in campo la materia prima. In questo senso - aggiunge il docente dell’Università Tuscia - gli analizzatori e i sensori non distruttivi sembrano essere gli strumenti più adatti. Il futuro andrà sempre più verso questa analitica con la possibilità di ridurre i costi di questi strumenti, che è un po’ il limite che oggi ne rallenta la diffusione”.
A ribadire il ruolo deciso dell’uomo Tommaso Bucci direttore tecnico di Castello Banfi: “l’enologo non solo si avvale ma studia e sperimenta tecnologie all’avanguardia, dai biosensori Wi-Fi ai sensori ottici non distruttivi con i quali è possibile controllare le fasi di trasformazione del vino anche a distanza e intervenire tempestivamente per produrre un vino di qualità”.
Focus - Web e giovani, l’affermazione del bere consapevole riparte da qui
Una nuova sfida culturale attende l’enologia italiana nei prossimi anni: conquistare i giovani ed educarli a un consumo consapevole di vino. Non è più tempo degli obsoleti strumenti di comunicazione che pure hanno portato il settore ai risultati di qualità odierni.
Ora è il momento di innovare, puntando al web marketing e ai linguaggi interdisciplinari del mondo giovanile in cui si fondono nuovi stili di vita e di consumo assieme ad una ricerca del valore autentico e non corrotto del passato.
“Alcuni segnali positivi che ci fanno capire come la cultura del bere consapevole sia già in via di diffusione, arrivano dagli ultimi dati sul consumo di alcol da parte dei ragazzi - ha affermato il direttore generale di Assoenologi, Giuseppe Martelli - e stando a quanto riporta l’ultima Relazione al Parlamento sul consumo di sostanze stupefacenti e alcol in Italia, è calato del 12,7% in un anno il numero dei giovani che riferisce di aver consumato alcol negli ultimi trenta giorni”.
“I giovani si comportano come portatori della domanda del “come vivere” oggi - ha aggiunto Mario Morcellini, direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università Sapienza di Roma - questione politicamente rivoluzionaria e più diffusa di quanto si creda, visibile nella ricerca di nuovi stili di vita, nuove forme di democrazia, diverso sviluppo locale sostenibile. In altre parole, diventano portatori di interessanti etiche della vita e dei valori quotidiani”.
Si tratta di dimensioni che, indirettamente, sono rintracciabili, secondo Morcellini, anche nei comportamenti di consumo e nel legame che si istaura con un elemento della tradizione come il vino.
Inoltre, pare stia tramontando l’epoca dello ‘sballo’, quello che si cerca “non con un bicchiere di vino - ha aggiunto Martelli - ma con l’assunzione di numerosi cocktail, spesso accompagnati da sostanze stupefacenti”.
Sempre secondo i dati del Dipartimento delle Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, sono diminuite le ‘ubriacature’, almeno quelle riferite dagli stessi giovani, che negli ultimi 12 mesi sono calate del 5,4% (dal 37,2% del 2010 al 35,2% del 2011 ).
“Non si può ignorare il dato secondo il quale restano comunque alte le percentuali dei ragazzi che hanno bevuto alcolici nell'ultimo anno - ha sottolineato il direttore generale di Assoenologi - dall'82,3% del 2009 al 77,7% del 2010”.
In questo scenario, si deve inserire la promozione di un consumo consapevole di vino che, oggi, deve essere capace di sposare linguaggi innovativi e tentare la strada del web marketing.
Questa nuova via potrebbe, secondo Morcellini, anche fornire lo slancio promozionale “per i piccoli produttori, decisamente meno preparati e disponibili ad affrontare le spese di comunicazione e di marketing”.
Insomma, i giovani come ‘driver dell’innovazione tecnologica’ all’interno delle famiglie, il cui ruolo, a questo punto si rovescia e costringe i membri meno giovani a stare al passo con il nuovo.
“Si percepisce, nella società moderna, un graduale ritorno al recupero della memoria che torna a rivestire un ruolo cruciale in qualità di patrimonio culturale, emozione, immaginario cui attingere - ha concluso Morcellini - dal campo alimentare (cibi tipici e rivalutazione del territorio viticolo) a quello estetico (forme retrò nelle auto, successo del modernariato), dall’abbigliamento ai prodotti culturali (letteratura, musica, cinema) al turismo (borghi, archeologia, genuinità e qualità dell’aria)”.
Focus - Dalle cantine alle tavole (degli stranieri), quasi il 50% del vino italiano si vende all’estero - nei primi tre mesi del 2011 le nostre esportazioni sono sensibilmente cresciute
Coltivare, raccogliere, imbottigliare e vendere, soprattutto, per i mercati esteri. Il sorpasso storico della domanda estera su quella interna si può dire compiuto. Con un mercato interno piuttosto statico, l’evoluzione delle vendite è sfociata sulle tavole di americani ed europei ma anche di russi e cinesi, in cerca di made in Italy, che apprezzano il vino italiano, buono per qualità e prezzo.
“La crisi economica ha lasciato la scena internazionale - afferma il direttore generale di Assoenologi, Giuseppe Martelli - nei primi tre mesi del 2011, l’export ha portato risultati più che soddisfacenti in volume (+13,9%) ed in valore (+14,5%)”.
Secondo gli ultimi dati dell’Ufficio Studi di Assoenologi, prosegue la fase espansiva degli spumanti, cresciuti del 25% per volume e valore.
“La vera sorpresa - prosegue Martelli - è il vino in bottiglia che mostra una espansione dei valori del +7,4%, mentre il valore medio mostra una crescita del 10,6%”.
Con quasi il 50% del vino italiano che prende il largo oltre confine occorre fare un’analisi dei principali mercati di sbocco consolidati e di quelli in espansione dove l’Italia potrebbe ancora acquistare quote significative di mercato.
Nei primi tre mesi del 2011, il prodotto nazionale ha visto consolidare la domanda da parte dei Paesi terzi, cresciuta del 22,7%, rispetto a quella dell’Europa, aumentata dell’11,4% (in volume).
I mercati che negli ultimi 12 mesi hanno aumentato la richiesta di prodotto italiano sono quello cinese (+84,7%), quello russo (+76,6%) mentre, a distanza, seguono i Paesi Bassi (+23,5%).
L’area del Nord America ha consolidato la crescita degli ultimi mesi mettendo a segno negli Usa +18,8% e +9,2% in Canada, così che afferma Leonardo LoCascio, amministratore delegato della Winebow, uno dei più importanti importatori di vino italiano negli States.
“Il mercato russo per i vini italiani è relativamente giovane ed è ancora in fase di formazione. Si prevede un incremento delle vendite grazie ai rendimenti crescenti della popolazione - afferma Irina Fomina, amministratore delegato della Mgb Wines di Mosca - . Il potenziale del mercato lascia ancora spazio per nuovi progetti mirati alla promozione facendo attenzione alle diverse fasce di prezzo”. Secondo Fomina il “tempo delle spese spensierate” per bottiglie di vino è finito anche in Russia. “La quantità del vino venduto a prezzo medio (3-7,5 euro a bottiglia) - aggiunge - supera di 5 volte le vendite dei vini più costosi”.
“Un consumatore medio russo, nello scegliere una bottiglia di vino italiano non si lascia guidare dalla ricerca di una particolare varietà, poiché la cultura media in materia di vino non è ancora arrivata a questo livello - ha sottolineato Fomina - . In realtà cerca quello che corrisponde alla sua idea di Made in Italy. Nel segmento di vini più costosi invece quello che conta è il prestigio della tipologia di vino o della denominazione. E qui le abitudini di consumo inducono a scegliere Barolo, Amarone, Brunello di Montalcino”.
La particolarità del mercato russo sta anche nella sua vastità e nella differenza tra il territorio urbano e quello rurale.
Le prospettive di crescita sono buone anche in Cina, secondo Maurizio Conz, broker vitivinicolo per i Paesi asiatici e la Cina.
“Le premesse per lo sviluppo del mercato sono incoraggianti - afferma Conz -. Il consumo annuale medio procapite varia da 0,38 fino ai 0,7 litri degli abitanti urbani, contro un consumo nel mondo pari a 6 litri. Il tasso annuo medio di crescita dell’industria vinicola cinese è pari al 18%, con un livello tecnologico ancora molto distante dai paesi leader del settore, quali Italia, Francia, Spagna e Stati Uniti”.
Il consumo di vino in Cina è, secondo l’esperto, appannaggio della una classe medio-alta (stimata tra i 90 e i 100 milioni di persone), residente nelle grandi città, benestante, colta, che conosce usi e costumi occidentali e “identifica nel vino un prodotto di immagine, uno status symbol con cui testimoniare il proprio livello sociale ma il prodotto inizia ad interessare anche le classi meno abbienti, che possono acquistare i vini più economici nella varie catene di supermercati”.
“Lo sviluppo economico e l’urbanizzazione - conclude Conz - stanno contribuendo ad un rapida crescita ed estensione del potere d’acquisto a 600 città di terza e quarta fascia, contro le precedenti 38 di prima e seconda fascia”.
Focus - Assoenologi: in 120 anni di storia della categoria le principali tappe che hanno caratterizzato il progresso del settore vitivinicolo e l’affermazione del vino italiano nel mondo
La storia dell’Associazione Enologi Enotecnici Italiani (Assoenologi) nasce nel 1891, quando Arturo Marescalchi, enotecnico diplomato alla Scuola enologica di Conegliano, con 46 colleghi fondò la “Società degli Enotecnici Italiani”, cioè la progenitrice dell’attuale organizzazione nazionale dei tecnici vitivinicoli - Assoenologi.
Dopo due anni, nel 1893, con il collega Antonio Carpené, pubblicò il primo numero della rivista “L’Enotecnico”, oggi “L’Enologo”, che da sempre costituisce l’organo ufficiale di stampa della categoria.
Nel 1916 la “Società degli Enotecnici Italiani” trasferì la sua sede da Conegliano a Milano, dove 95 anni opera. In quel periodo l’Associazione contava 100 tecnici, il 45% di tutti gli enotecnici allora impegnati nel settore.
Con l’avvento del fascismo l’Associazione fu sciolta per essere ricostituita nel 1946 per opera dell’enotecnico Giuseppe Asnaghi che, alla Scuola enologica di Alba, trasformò la “Società degli Enotecnici Italiani” in “Associazione Enotecnici Italiani”, di cui assunse la presidenza.
Nello stesso anno a Milano fu organizzato il primo congresso nazionale del dopoguerra; un evento che, ininterrottamente da allora, ogni anno si ripropone come il massimo appuntamento della categoria.
Ad Asnaghi nel 1949 successe Dino Terraneo che, dieci anni dopo, lasciò la presidenza ad Antonio Carpené. Nel 1965 il testimone passò a Emilio Sernagiotto, cinque anni più tardi a Narciso Zanchetta e nel 1975 ad Ezio Rivella. Nel 1987 venne eletto Pietro Pittaro a cui nel 1996 subentrò Mario Consorte, ed a lui, nel 2007, Giancarlo Prevarin, attuale presidente.
Nel 1949 comparve un’altra figura determinante per la vita e lo sviluppo dell’associazione: il responsabile operativo e della gestione, chiamato segretario prima e direttore poi. Carica ricoperta per la prima volta da Giuseppe Dossi a cui subentrò nel 1971. dopo un brevissimo periodo di reggenza di Maurizio Merlo, Vittorio Fiore. Nel 1978 fu chiamato a dirigere l’Associazione Giuseppe Martelli, primo direttore a tempo pieno.
Il passaggio da “Associazione Enotecnici Italiani” ad “Associazione Enologi Enotecnici Italiani” avvenne, sotto la presidenza di Pietro Pittaro, in occasione del 46° Congresso nazionale, celebrato a Trento nel 1991 quando, con i primi cento anni di vita, si festeggiò l’approvazione della legge 10 aprile 1991, n. 129, caparbiamente voluta dalla nostra Associazione per riconoscere ufficialmente il titolo di enologo ed aprire così ai tecnici vitivinicoli italiani le porte professionali dell’Europa.
L’attuale Associazione è quindi il risultato di 120 anni di storia e dell’impegno di numerosi uomini che si sono profondamente impegnati per il progresso della categoria e del settore, ma determinante per la sua qualificazione è stata sicuramente l’attività svolta negli ultimi 30 anni. Basti pensare che gli iscritti nel 1975 erano poco più di 1000 e oggi sono oltre 4000. Per non parlare della propositività che, con coerenza e obiettività, l’Assoenologi manifesta, ai massimi livelli, su tutti i più attuali problemi del settore.
Per dimostrare il ruolo che l’Enotecnico ha avuto per il miglioramento e il progresso della vitienologia e che ha nell’attuale gestione del comparto, basta sinteticamente ripercorrere le principali tappe che hanno caratterizzato la trasformazione del settore.
Tra la metà e la fine dell’Ottocento, la vite e quindi il vino rischiarono di scomparire dall’Europa a causa dell’avvento dall’America di tre gravi parassiti: l’oidio, la fillossera e la peronospora. La viticoltura europea uscì da questo trauma profondamente trasformata, certamente turbata, ma consapevole che il suo futuro era legato alla ricerca, alla sperimentazione, ad una tecnologia capace di sopperire ad eventuali nuove calamità.
Il pericolo e le preoccupazioni che i tre parassiti suscitarono fecero capire che non si poteva andare avanti con le tecniche colturali, che dal tempo di Columella e Virgilio venivano tramandate da padre in figlio, bensì che ci si doveva basare su concetti e principi di agronomia, di biologia, di fisiologia, studiando e ricercando le cause che stanno alla base di ogni fenomeno. Si capì che la tradizione da sola non indirizzava i viticoltori, non combatteva le calamità.
Nel 1876 nasceva così a Conegliano la prima Scuola di enologia d’Italia, con lo scopo di assicurare uomini specializzati, preparati, in grado di seguire e far proseguire, su basi scientifiche, il settore vitivinicolo nazionale. L’enotecnico venne a costituire il fattore determinante su cui si sarebbe basata tutta la vitienologia.
Vini migliori, senza difetti significarono mercati più facili, crescita delle richieste e, per i viticoltori, produzioni più remunerative. Nacquero le prime cantine sociali, dirette da enotecnici, con lo scopo di vinificare e curare i prodotti di quegli agricoltori che, per mancanza di attrezzature e di conoscenze, spesso vedevano vanificate intere annate. Si perfezionò la fermentazione in bianco, quella a temperatura controllata, si diede sempre più importanza alle analisi enochimiche, ai controlli microbiologici, all’igiene della cantina: la qualità della produzione vinicola italiana aumentò sensibilmente. Anche il modo di vendere e di acquistare cambiava.
Per praticità, igiene e razionalità, alla damigiana andava sempre più sostituendosi la bottiglia anche per i vini comuni, “quelli di tutti i giorni”. In cantina una metamorfosi di questo genere implicò una più rispondente organizzazione, l’adozione di tecnologie più avanzate nella difficile pratica dell’imbot-tigliamento. Ezio Rivella, per dodici anni presidente dell’Associazione Enologi Enotecnici Italiani, mise a punto una tecnologia di imbottigliamento che avrebbe garantito stabilità al vino permettendogli di attraversare l’oceano senza particolari problemi biologici.
Questa profonda metamorfosi, che costituisce poi la storia degli ultimi 130 anni della nostra enologia, ha avuto e ha, a livello tecnico, un protagonista principale: l’enotecnico, oggi enologo.
Non a caso da oltre cent’anni la quasi totalità delle cantine italiane di una certa importanza si affida, direttamente o indirettamente, a questo professionista. Per rendersi conto di ciò, basta andare a vedere chi è il direttore o il responsabile di produzione delle principali entità vitivinicole ed enologiche italiane o sfogliare le oltre 800 pagine che compongono l’Annuario degli enologi enotecnici italiani.
Con l’apertura delle frontiere europee, non solo alle merci ma anche alle attività intellettuali e quindi alle professioni, a fine anni ’80 nacque la necessità di individuare i tecnici vitivinicoli italiani. Questa esigenza coincise anche con la necessità di far riconoscere in Italia il titolo di enologo, visto che era assurdo che uno dei primi Paesi vitivinicoli del mondo non avesse un professionista riconosciuto, ma solo una qualifica professionale, quella di enotecnico, cioè di perito agrario specializzato in viticoltura ed enologia.
Per risolvere questi problemi e dare nel contempo una giusta cornice alla consolidata professionalità dell’enotecnico, l’Assoenologi promosse la promulgazione di una legge atta a riconoscere in Italia il titolo di enologo, fissandone la preparazione a livello universitario, così come sancito dalle direttive comunitarie e stabilendone l’ordinamento professionale.
Essa fu approvata dal Parlamento italiano il 10 aprile 1991 con il n. 129. L’articolo 1 della legge non solo sanciva attraverso quali corsi l’enologo doveva essere formato, ma anche che gli enotecnici con tre anni di attività specifica e continuativa nel settore potevano acquisire, dopo il vaglio di una Commissione interministeriale, il titolo di enologo.
Questa commissione valutò quasi 3.500 pratiche, riconoscendo il titolo di enologo a 2.953 professionisti ovviamente tutti già attivamente impegnati nel settore. I suoi lavori terminarono nel 1994 e, per questa ragione, da quella data il tecnico del vino in Italia è diventato l’enologo.
Nel 1997, con decreto, il Ministero delle politiche agricole demandò all’Asso-ciazione Enologi Enotecnici Italiani la gestione del titolo di enologo e la stampa, da parte del Poligrafico dello Stato, del relativo diploma.
Il titolo di enologo altro quindi non è che la logica evoluzione della qualifica di enotecnico, così come la preparazione universitaria la giusta evoluzione della già valida formazione garantita per oltre cento anni dal corso sessennale.
Attualmente in Italia operano circa 4.400 tecnici, l'Assoenologi ne rappresenta il 90%, così distribuiti: il 77% nel Centro-Nord e il 23% nel Centro-Sud e nelle Isole.
Focus - Nelle risoluzioni e nelle prese di posizione dei congressi nazionali di Assoenologi alcune delle principali tappe dell’evoluzione della vitienologia italiana
Leggendo le risoluzioni e le prese di posizione dei diversi Congressi nazionali di Assoenologi che, dal dopoguerra ad oggi, anno dopo anno, ininterrottamente si sono alternati, si ha l'idea di ripercorrere le tappe che hanno scandito i momenti importanti dell'enologia italiana. Di seguito sintetizziamo quelle degli ultimi quindici anni.
Nel 1995 a Venezia il congresso dei tecnici vitivinicoli sviluppò il primo ampio, articolato confronto sulla riforma dell’Organizzazione comune di mercato giungendo alla conclusione che per abbattere le eccedenze e valorizzare il vigneto occorreva arricchire, in tutti i Paesi dell’Unione europea, con prodotti derivati dall'uva o con tecnologie adeguate.
Così non è stato, ma oggi sono in molti ad affermare “L’Assoenologi aveva ragione”
Nel 1996 a Roma in occasione del 51° Congresso, l’Assoenologi ribadì il più fermo “no” ai contributi a pioggia, rilanciando l’opportunità di tornare ad un più libero mercato che premi chi lavora bene e scoraggi chi produce per distruggere.
Ci sono voluti tredici anni ma la questione oggi è recepita a livello comunitario: eliminati i contributi a pioggia, incrementati quelli allo sviluppo.
Nel 1997 a bordo della “Costa Allegra” gli enologi dimostrarono che la sfida degli anni a venire si sarebbe giocata nel vigneto, denunciando che la superficie media vitata italiana era di soli 0,7 ettari, contro i 7 della Francia e i 300 di Cile e Australia.
Oggi questi concetti rappresentano uno dei punti d’arrivo per il futuro della vitienologia italiana.
Nel 1998 a Napoli l’Assoenologi sferrò un forte attacco contro chi voleva indicare in etichetta frasi tipo “Il vino nuoce gravemente alla salute”, contribuendo in modo determinante all’accantonamento della proposta di legge.
Legge che non fu mai approvata.
Nel 1999 a Lecce la categoria denunciò, numeri alla mano, che l’Italia avrebbe perso diverse centinaia di miliardi perché carente dell’inventario viticolo, aprendo la strada a controlli e denunce degli inadempienti.
Oggi il catasto vitivinicolo è una realtà sancita dal decreto legislativo 61/2010.
Nel 2000 a bordo della “Costa Classica” venne presentata la norma comunitaria ed il relativo decreto nazionale applicativo, proposto da Assoenologi, per demandare ai tecnici alcune pratiche enologiche, abbattendo così tempi, costi e burocrazia e meglio responsabilizzando il settore.
Oggi alcuni adempimenti sono stati a livello comunitario demandati alla responsabilità dell’enologo
Nel 2001 a Milano in occasione del 56° Congresso nazionale i tecnici vitivinicoli italiani fecero chiarezza su due importanti aspetti riguardanti “Vino biologico” e “Legno nel vino”, adottando due risoluzioni che costituirono la base delle successive norme comunitarie e nazionali.
Nel 2002 in Abruzzo l’Assoenologi presentò, per la prima volta in Italia, la realtà vitivinicola cinese. Inoltre, al grido “il progresso non si può fermare”, ruppe ogni schema e presentò i nuovi tappi in termoplastica: oggi realtà mondiale per alcuni tipi di vino.
Oggi queste chiusure rappresentano una realtà mondiale per alcuni tipi di vino.
Nel 2003 a Sorrento gli enologi denunciarono la necessità di più razionali e coordinati controlli, nel contempo misero in guardia l'Italia del vino sulle strategie che Australia e Cile stavano con successo attuando attraverso programmi pluriennali di commercializzazione e sviluppo.
Nel 2004 a Reggio Calabria l’Assoenologi aprì con le categorie un costruttivo confronto sulla riforma della legge 164/92 avanzando concrete proposte. Il sottosegretario di Stato con delega alla vitienologia presentò al Congresso la stesura definitiva della proposta di modifica della legge.
Nel 2005 a Taormina i tecnici del vino iniziarono a parlare di “cambiamenti”, mettendo a fuoco “il futuro”, partendo dalla meccanizzazione del vigneto per arrivare alla genomica e alla proteomica.
Oggi il 50% delle aziende con più di 40 ettari è meccanizzato.
Nel 2006 a Ischia il 61° Congresso di Assoenologi concentrò la sua attenzione sui mercati potenziali denunciando che esportiamo il 90% dei nostri vini in soli 11 Paesi e che pertanto occorre conquistare anche gli altri 80, molti dei quali assai recettivi, stimolando il settore ad interessarsi dei cosiddetti nuovi Paesi consumatori all'insegna dello slogan “Il futuro del vino italiano è nell’export”.
Nel 2007 a bordo della “Costa Victoria” l’Assoenologi fece il punto sulla riforma dell’Ocm vino, proponendo di procrastinare la sua entrata in vigore dal 1° agosto 2009 al 1° agosto 2010, ma purtroppo non fu ascoltata.
Oggi sono in molti a “mordesi le dita”.
Nel 2008 a Venezia l’Assoenologi spronò il settore ad “uscire dal guscio” per essere sempre più competitivo e “continuare a vincere le sfide dei mercati”. Denunciò il fatto che un enologo deve dedicare il 25% del suo tempo alla burocrazia.
Il problema è ancora aperto.
Nel 2009 ad Ascoli Piceno, a fronte del costante calo dei consumi interni, dichiarò che l'unica valvola di sfogo rimane l'export, riscuotendo unanimi consensi e spronando le aziende vitivinicole ad un sempre maggiore interesse verso i numerosi mercati ancora inesplorati.
Il 65° Congresso celebrato lo scorso anno a Merano è storia attuale visto che l'eco del suo successo non si è ancora spento per l'attualità dei temi trattati e per le risoluzioni proposte che sono al vaglio degli organi competenti.
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