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Paradossi del terzo millennio: da un lato, in una parte del mondo, il cemento che “divora” le terre coltivabili, anche in Italia, nell’altra le multinazionali investono nel “land grabbing”: l’allarme di Salone del Gusto e Terra Madre

Paradossi del terzo millennio: da un lato, in una parte del mondo, il cemento che “divora” le terre coltivabili, nell’altra le super potenze mondiali che fanno a gara per comprare campi e oceani per garantirsi il controllo sull’accesso al cibo del futuro. In un dualismo tra cementificazione selvaggia e “land & ocean grabbing” che sta diventando una vera piaga. Come emerso da Salone del Gusto e Terra Madre (www.salonedelgusto.it), a Torino. Solo in Italia, ci sono 22.000 chilometri di superficie coperta da cemento per edifici, strade, e infrastrutture, e solo tra il 2009 e il 2012 il Belpaese ha perso 720 km quadrati di suolo, come se prendessimo le città di Milano, Firenze, Bologna, Napoli e Palermo e le mettessimo una di fianco all’altra. Nello stesso tempo, con il land grabbing le multinazionali si sono accaparrate nel mondo 86 milioni di ettari negli ultimi 6 anni, 5 volte la superficie dell’Italia”.
“Il consumo di territorio - ha detto il fondatore di Slow Food, Carlin Petrini - cresce di giorno in giorno di 8 mq al secondo. Ci stiamo letteralmente mangiando la terra. Non ci consola neanche guardare gli altri Stati europei, dove la situazione non è poi così distante da quella italiana. Per dare un’idea di ciò di cui stiamo parlando, considerate che in 10 anni in Europa abbiamo perso una superficie vasta quanto quella dell’Isola di Cipro. Sempre a livello europeo, in 7 anni gli Stati membri hanno rifiutato di esaminare una proposta di regolamentazione sull’uso e la tutela di suolo che definisse una politica comunitaria. Ad aggravare la situazione nelle ultime ore si è messa anche l’approvazione della conversione in legge del cosiddetto “Decreto Sblocca Italia”, che è “surreale” - ha aggiunto Petrini e - che acuirà le problematiche legate al controllo e all’investimento in attività edilizie e di costruzione di infrastrutture. Questo nonostante circa il 47% della superficie costruita in Italia sia occupata da infrastrutture lineari, ossia strade, autostrade e ferrovie. Insomma si continuerà a costruire male, in modo forse più o meno lecito o dove non si potrebbe farlo, con una pianificazione del territorio che ignora il rischio idrogeologico, causa un’alterazione del paesaggio e riduce il terreno coltivabile. Come sarà possibile, dunque nutrire un pianeta che cresce in maniera esponenziale se stiamo perdendo terreni agricoli? Quali saranno le conseguenze sull’agricoltura? Il peggiore degli scenari vedrebbe la diffusione delle monocolture per ottimizzare le produzioni, un aumento nell’uso di concimi chimici e pesticidi, una conseguente riduzione della biodiversità, l’inquinamento delle falde acquifere e del suolo e il suo impoverimento”. E in previsione di questo, è da anni in corso quello che, per alcuni, è un vero e proprio “furto legalizzato” di terre coltivabili su scala mondiale.
“Con il land grabbing le multinazionali si sono accaparrate nel mondo 86 milioni di ettari negli ultimi 6 anni, 5 volte la superficie dell’Italia”, ha detto Eric Holt-Giménez, direttore di Food First. “Nel mondo le vittime di land grabbing sono molto diverse tra loro, tutte potenziali alleate. Per lottare contro l’accaparramento: bisogna creare dei forti movimenti sociali e cercare di cambiare le leggi. Questa l’unica soluzione”.
Dati recenti sul fenomeno arrivano da Grain.org, che ha documentato 416 investimenti di land grabbing dal 2006 al 2012, che hanno interessato quasi 35 milioni di ettari di terreno in 66 Paesi destinati tutti alla produzione di colture alimentari. La raccolta dei dati fornisce un’istantanea netta di come l’agribusiness sia stato in rapida espansione in tutto il mondo, a partire dalla crisi alimentare e finanziaria del 2008, e come tutto ciò stia rubando la produzione di cibo dalle mani degli agricoltori e delle comunità locali.
L’Africa è l’obiettivo primario dei land grabbers, ma sono ingenti anche gli investimenti in America Latina, Asia ed Europa dell’Est, a dimostrazione che questo è un fenomeno globale. Chi sono i land grabbers? La maggior parte provengono dal settore agroalimentare, ma ci sono anche società finanziarie e fondi sovrani, responsabili di circa un terzo delle offerte.
Investitori europei, soprattutto da Regno Unito e Germania, e asiatici, da Cina e India, rappresentano circa i due terzi dei dati del land grabbing. Ovviamente anche gli Stati Uniti sono in corsa, in cima alla lista in 41 casi, mentre gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita con 39 casi. Il Mozambico è uno dei Paesi che maggiormente sta subendo il land grabbing, con un totale di 25 investimenti da parte di ben 13 nazioni (Brasile, Cina, Francia, India, Italia, Libia, Mauritius, Portogallo, Singapore, Sud Africa, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti) di cui 21 portati a termine e 5 in via di definizione per un totale di 1.583.149 ettari di terreno espropriati ai contadini. “Abbiamo una legge che difende la terra, ma non è osservata” dice Ana Paula Tauacale, vicepresidente dell’Unac, Unione Nazionale di Contadini del Mozambico. Insieme a una rete di cooperative e associazioni ha fatto partire una petizione contro ProSavana, progetto che ha come obiettivo di trasformare un’area di 14,5 milioni di ettari, 145.000 km quadrati, in un territorio di scorribanda per imprese nippo-brasiliane interessate alla monocoltura da esportazione. “Noi vogliamo portare avanti la nostra agricoltura familiare tradizionale e non abbiamo nessuna terra da regalare alle multinazionali”.
Il concetto fondamentale di resistenza sul campo è stato espresso da Themba Chauke di Landless Peoples Movement del Sud Africa. “La resistenza si fa sul campo ma anche con l’educazione dei contadini, insegnando loro che è possibile coltivare sementi sane e creando una rete di scambio tra gli agricoltori”. La lotta deve continuare anche nell’opposizione alle scelte sbagliate dei governi, che troppo spesso svendono le terre in nome del profitto. “Vogliamo continuare a essere contadini, indigeni e persone affezionate alla terra”, afferma María Luisa Albores González della cooperativa Tosepan Titataniske del Messico. “Molto spesso siamo intimoriti di fronte a queste difficili battaglie, ma sappiamo che vale la pena combattere perché non siamo soli e, anzi, abbiamo qualcuno che ci sostiene”.
Non solo land grabbing, ma ocean grabbing, l’attacco ai mari. “La privatizzazione delle zone di pesca, dovuta all’ossessione della crescita economica dei Governi, ha permesso il proliferare del fenomeno”, dichiara Naseegh Jaffer, segretario generale del World Forum of Fisher Peoples. “È ora non solo di parlare di queste cose, ma di agire, e tutti noi possiamo fare la differenza. È sufficiente cambiare il nostro stile di vita e abbracciare una filosofia più ecosostenibile per arrivare all’obiettivo finale: la sovranità alimentare dei popoli”.

Focus - Le azioni contro il consumo di suolo in Italia: il Forum nazionale “Salviamo il paesaggio - Difendiamo i territori”
Ad occuparsi del consumo di suolo in Italia, è nato il Forum nazionale “Salviamo il paesaggio - Difendiamo i territori” movimento di 1.100 associazioni e circa 10.000 cittadini, che hanno come obiettivo quello di tutelare il nostro territorio dalla deregulation (e quindi da decreti come lo “Sblocca Italia”) e dal cemento selvaggio. Agisce su diversi fronti, primo fra tutti quello dell’informazione e la comunicazione di vertenze sparse nel territorio italiano, a sostegno di proposte regionali per fermare il consumo di suolo, fino ad arrivare a una regolamentazione da presentare in contesti non solo nazionali, ma anche europei. Censisce gli edifici vuoti e inutilizzati per capire le reali esigenze di urbanizzazione del Paese e collabora con istituti di ricerca per dimostrare scientificamente l’esigenza di fermare lo scellerato consumo di una risorsa non rinnovabile, se non nel lunghissimo periodo.
I rischi connessi sono tanti, primo fra tutti quello delle alluvioni, cui assistiamo con spaventosa regolarità. E poi frane, smottamenti, che insieme alla riduzione della terra coltivabile, costituiscono un serio pericolo per la vita delle persone. Che fare? Prendere forse esempio da chi resiste, da chi “vuol bene alla terra”. Come i vignaioli del Lugana, che combattono contro i cantieri per la realizzazione della Tav nella tratta tra Brescia e Verona, che comprometterebbero seriamente la produzione del vino Doc della valle, oltre che l’indotto turistico di una zona come quella del Lago di Garda. Oppure il comune di Tronzano Vercellese, in provincia di Vercelli, che cerca da anni di contrastare l’attuazione di obsolete decisioni politiche sulla realizzazione di nuove cave nel proprio territorio.
“Una risposta arriva proprio da Slow Food - si legge in una nota - che da 25 anni cerca di far capire alle persone che dietro alla produzione del cibo c’è un sistema che si basa proprio su quel suolo che distruggiamo. Il problema non tocca solo chi subisce un’alluvione e perde tutto il raccolto, o l’esproprio della terra per la costruzione di una strada. Ma ci riguarda tutti. E allora perché ostinarci a non sostenere quella che a oggi è l’unica a conservare e valorizzare il territorio? L’agricoltura familiare, le produzioni di piccola scala operano e lavorano nel rispetto della biodiversità e del territorio. Basta un cambiamento di abitudini di acquisto e di consumo, piccole azioni che possono contribuire a preservare il suolo. Perché bisogna sentirsi contadini dentro per salvare la terra”.

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