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Luoghi comuni alimentari? Risponde il network Sial col “Food 360”, report che ha sondato le abitudini di oltre 100.000 cittadini di tutto il mondo, dall’orto fai-da-te all’attenzione alla sostenibilità, dall’uso del web alla scelta di prodotti locali

Non Solo Vino

In che misura la componente culturale, e l’appartenenza ad una Nazione piuttosto che a un’altra, possono far variare la “presa” di un trend alimentare in una regione del mondo piuttosto che in un’altra? La domanda è intrigante quanto complessa, e a provare a rispondere ci ha pensato il network Sial (www.sial-network.com), che riunisce a livello gobale alcuni dei maggiori show commerciali dedicati all’industria del cibo, per un aggregato di oltre 14.000 espositori e 300.000 visitatori. Il network ha svolto un sondaggio online su oltre 100.000 persone, “coprendo” Europa, Cina, Stati Uniti, Medio Oriente e Sud-Est asiatico, e le risposte sono in certi casi davvero sorprendenti.

Innanzitutto, il “buzz” mediatico sulla coltivazione casalinga di frutta e verdura poggia su una solida base di praticanti: nel Sud-Est asiatico ben l’84% del campione afferma di mangiare (anche) “autoprodotto”, e nel Medio Oriente lo fa più della metà (55%) degli intervistati, con il resto del mondo che sta replicando questi tassi di diffusione, e ad esempio in Francia sono quasi il 50%. Non altrettanto si può dire, invece, per quanto riguarda il trend dello sviluppo sostenibile come vantaggio competitivo effettivo, dato che agli occhi dei consumatori - che pure vorrebbero combattere lo spreco alimentare (89%) e che considerano il benessere animale come una necessità (77%) - la sostenibilità di un prodotto alimentare è solo il quindicesimo fattore più importante su 15 nel Medio Oriente, e in Francia, Gran Bretagna e Cina è solamente un gradino più sopra. I fattori veramente importanti per i consumatori allo scaffale, secondo il sondaggio, sono il gusto, la salubrità e il basso prezzo, con la sostenibilità del prodotto che viene vista al massimo come una garanzia addizionale di qualità. Passando alla voglia di nuovo, di diverso, di “esotico” dei consumatori globali, l’interesse c’è, specie in Medio Oriente (71%), in Francia (64%) e in Spagna (63%), ma è un trend più legato a sapori nuovi o colori inaspettati: permane, comunque, la riluttanza a comprare prodotti che vengono percepiti come non tipici della propria cultura alimentare, e ad esempio in Francia solo il 32% del campione ha assaggiato prodotti a base di alghe, e solo il 14% ha fatto lo stesso con gli insetti.

E ancora, nonostante l’onnipresenza di Internet nella società moderna, i servizi online per quanto riguarda il food & beverage non vengono usati con la stessa frequenza che è comune verso le industrie del turismo (54%) o dell’auto (45%), attestandosi a un 26% globale. Va detto, però, che ci sono differenze sostanziali da Paese a Paese; in Cina ben l’86% del campione usa l’online per cibo e bevande e nei Paesi del Sud-Est asiatico la percentuale è del 75%, mentre in Europa non si raggiunge il 50%, con la Francia al 44% e la Germania, sorprendentemente, ad appena il 30% del campione. Infine, la filiera corta pare apprezzata a livello quasi planetario, con il 60% circa del campione generale che dichiara di preferire l’acquisto di prodotti di fattura locale, e con la ricerca di vegetali coltivati senza uso di pestici e antibiotici che nel Sud-Est asiatico è una preoccupazione per ben il 93% e l’80% del campione, e con l’82% che si dichiara preoccupato dell’origine del proprio cibo. Dinamica simile a quella che troviamo in Francia, dove le percentuali diventano dell’83%, del 79% e del 68%, nell’ordine, mentre, non troppo sorprendentemente, questi fattori non sono così primari per la Gran Bretagna, dove “solo” il 59% del campione cerca cibi coltivati senza pesticidi e il 53% senza l’uso di antibiotici.

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