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“Registriamo le terre con certificati comunali, diventano beni del villaggio e nessuno può acquistarle. Abbiamo salvato 130.000 ettari in 2 mesi”: contro il land grabbing in Africa, lo ha inventato Edward Loure, leader della tribù masai, a Torino

Non Solo Vino
Edward Loure, attivista della Tanzania, leader della tribù masai

Migrazioni e gommoni, emergenze umanitarie e muri che si alzano ai confini. Ma ci sono anche le sfide di chi resiste nella propria terra e prova a combattere i fenomeni che la impoveriscono. Come il land grabbing, l’accaparramento di terre da parte di grandi investitori che strappano i terreni alle comunità “per coltivarci fiori, o altri prodotti da esportare mentre noi moriamo di fame”, racconta da “Terra Madre Salone del Gusto” che si chiude oggi a Torino, Edward Loure, attivista della Tanzania, leader della tribù masai laureato in Gestione e Management, vincitore del premio “Goldman Environmental Prize” (il Nobel per l’Ambiente per l’Africa, ndr) perché inventore di un modo per frenarlo: “registriamo le terre con certificati comunali che le trasformano in beni della collettività, del villaggio - spiega - così non può arrivare nessuno ad acquistarle, e anche i ricavi delle coltivazioni restano al villaggio. Negli ultimi due mesi siamo riusciti a proteggere 130.000 ettari di terre ed entro dicembre contiamo di arrivare a 200.000. Siamo partiti dalle popolazioni masai, ma il lavoro prosegue coinvolgendo altri gruppi etnici”. La sua storia insegna che non esiste mai un solo punto di vista da cui osservare il mondo, “e che parlando di migrazioni dobbiamo cambiare i verbi abituali - ha detto il fondatore di Slow Food Carlo Petrini - innanzi tutto dobbiamo imparare da loro e non solo educare. Lo dimostra la storia di Loure: uno che a 40 anni inventa un intero catasto dei beni comuni di un Paese è un genio. E poi, come mi ha insegnato Terra Madre, l’Europa ha molto da dare a questi Paesi: cominciamo a sostituire il verbo aiutare con restituire”.

È anche a quest’Europa, e a questo mondo che migra, che ha guarda l’evento di Slow Food, “per chiederci cosa spinge milioni di persone a lasciare le proprie case e mettersi in viaggio rischiando la vita - ha ricordato Petrini - ricordiamoci che c’è stato un tempo in cui erano gli emigranti italiani a morire nei disastri in mare”. Cosa muove i migranti d’oggi? “Le persone che scappano vengono dalla Libia, dalla Siria, guarda caso Paesi in guerra - ha detto Gino Strada, fondatore di Emergency - e non si è mai visto un popolo scendere in piazza per invocarla: sono i potenti a dichiararla, e a morire i figli dei poveri. L’unica strada per ridurre la sofferenza dei Paesi più poveri e non costringere tanti a migrare, è allora rendere reale un’utopia: abolire la guerra. Per legge. Abolirla, come la schiavitù: è questa l’unica prospettiva che dobbiamo seguire”.

Quanto a noi, al di qua del mare, dobbiamo pensare prima di tutto al cambiamento individuale, al risveglio delle coscienze. E chi può farlo meglio dell’arte? Quella, ad esempio, del fumettista Zerocalcare, al secolo Michele Rech, amatissimo dai giovani e reso celebre dal fumetto “Kobane calling”, viaggio tra i curdi che combattono l’Isis al confine turco-siriano.

Il segreto, alla fine, è “realizzare che i migranti ci mettono in contatto con diverse culture, sono una ricchezza”, ha aggiunto Strada. E ad arricchirsi, per non scordare un tema caro a Slow Food, sono anche le tradizioni alimentari: tanti gli esempi di come i movimenti umani abbiano cambiato i consumi. Come l’immigrazione italiana di inizio Novecento in America: “per soddisfare gli italiani di New York e Buenos Aires si importavano prodotti come olio, pomodoro, pasta - racconta Elizabeth Zanoni dell’Università di Toronto - con più conseguenze: da una parte lo stimolo dell’agricoltura e di tante produzioni industriali italiane, dall’altra mutazioni epocali dei consumi americani. Poi qualcosa cambiò e si iniziò a produrre in loco, senza però abbandonare quegli ingredienti venuti da lontano: da qui i piatti ibridi e le contaminazioni”.

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