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Rapporto Agromafie 2017 Coldiretti-Eurispes: il business aumenta del 30%, invade definitivamente il Nord Italia e si infiltra in tutta la filiera alimentare. Ma grazie ai controlli il made in Italy batte i prodotti stranieri per qualità e salubrità

Il Rapporto Agromafie 2017 è inclemente. Nel 2016 il crimine organizzato ha spostato diverse asticelle: dai volumi di affari, aumentati di un corposo 30% (21,8 miliardi di euro), ai confini geografici, accogliendo il nord Italia nella top ten delle città a più alta concentrazione di traffico del falso made in Italy. Sono anche aumentati i furti sia di attrezzature che di prodotti (anche bestiame), ma non basta: le infiltrazioni riguardano ormai tutta la filiera, dai campi, alla distribuzione, passando per gli imballaggi e la trasformazione, il tutto ben supportato dall’estero, perché il 30% degli alimenti che gli italiani consumano provengono da Paesi stranieri che non sempre ne garantiscono la salubrità e la sicurezza (sia dei prodotti che dei produttori, ad esempio col “caporalato invisibile”). Unico punto positivo: il Belpaese, con i suoi 200.000 controlli effettuati dalle forze dell’ordine preposte, si guadagna la medaglia d’oro nella qualità e sicurezza alimentare: solo lo 0.3% dei prodotti nostrani supera infatti i limiti di residui chimici, a differenza dei campioni comunitari (1,6%) e quelli extracomunitari (6,5%).
La stima dei 21,8 miliardi che emerge dal Rapporto Agromafie 2017, elaborato da da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla Criminalità nell’Agricoltura e sul sistema agroalimentare, è con tutta probabilità, ancora largamente approssimativa per difetto, perché restano inevitabilmente fuori i proventi derivanti da operazioni condotte “estero su estero” dalle organizzazioni criminali, gli investimenti effettuati in diverse parti del mondo, le attività speculative poste in essere attraverso la creazione di fondi di investimento operanti nelle diverse piazze finanziarie, il trasferimento formalmente legale di fondi attraverso i money transfer in collaborazione con fiduciarie anonime e la cosiddetta banca di “tramitazione”, che veicola il denaro verso la sua destinazione finale.
Nel 2016 si è registrata un’impennata di fenomeni criminali che colpiscono e indeboliscono il settore agricolo nostrano dove quasi quotidianamente ci sono furti di trattori, falciatrici e altri mezzi agricoli, gasolio, rame, prodotti (dai limoni alle nocciole, dall’olio al vino) e animali con un ritorno prepotente dell’abigeato: veri raid capaci di mettere in ginocchio un’azienda, specie se di dimensioni medie o piccole, con furti di interi carichi di olio o frutta, depositi di vino o altri prodotti come file di alveari, intere mandrie o trattori caricati su rimorchi di grandi dimensioni. A questi reati contro l’agricoltura, si affiancano racket, usura, danneggiamento, pascolo abusivo, estorsione nelle campagne.
I poteri criminali si “annidano” nel percorso che frutta e verdura devono compiere per raggiungere le tavole degli italiani, e che vede uno snodo essenziale in alcuni grandi mercati di scambio per arrivare alla grande distribuzione. Tra tutti i settori “agromafiosi”, quello della ristorazione è forse il comparto più tradizionale e immediatamente percepito come tipico del fenomeno: in alcuni casi sono le stesse mafie a possedere addirittura franchising e dunque catene di ristoranti in varie città d’Italia e anche all’estero, forti dei capitali assicurati dai traffici illeciti collaterali. Il business dei profitti criminali reinvestiti nella ristorazione coinvolgerebbe oltre 5.000 locali, con una più capillare presenza nelle grandi città, attività “pulite” che si affiancano a quelle “sporche”, avvalendosi degli introiti delle seconde e assicurandosi così la possibilità di sopravvivere anche agli incerti andamenti del mercato e alle congiunture economiche sfavorevoli.
“Le agromafie vanno contrastate nei terreni agricoli, nelle segrete stanze in cui si determinano in prezzi, nell’opacità della burocrazia, nella fase della distribuzione di prodotti che percorrono centinaia e migliaia di chilometri prima di giungere al consumatore finale, ma soprattutto con la trasparenza e l’informazione dei cittadini che devono poter conoscere la storia del prodotto che arriva nel piatto”, ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel sottolineare che “per l’alimentare occorre vigilare sul sottocosto e sui cibi low cost dietro i quali spesso si nascondono ricette modificate, l’uso di ingredienti di minore qualità o metodi di produzione alternativi se non l’illegalità o lo sfruttamento”.

Focus - Si sposta da Sud a Nord il falso made in Italy

La graduatoria delle province italiane rispetto all’estensione e all’intensità del fenomeno agromafia nel 2016, se fotografa una concentrazione del fenomeno soprattutto nel Mezzogiorno, evidenzia la presenza nella top ten di rilevanti realtà del Nord come Genova e Verona rispettivamente al secondo ed al terzo posto dopo Reggio Calabria per i traffici finalizzati al ricco business del falso Made in Italy. Emerge dal Rapporto Agromafie 2017 n. 5, elaborato da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, nel quale è stata calcolata l’intensità del fenomeno delle agromafie per provincia sulla base delle risultanze quantitative delle azioni di contrasto specifiche poste in essere dalle diverse Forze dell’ordine per questo particolare aspetto criminale. L’agromafia è stata quindi calcolata come la combinazione lineare di alcune variabili criminali che si ritengono particolarmente significative per individuare la presenza del fenomeno nel territorio: variabili opportunamente indicizzate e con pesi diversi in funzione della loro correlazione ponderata con il particolare tipo di reato.
Per quel che concerne Genova il dato emerso è particolarmente elevato a causa di un diffuso sistema di contraffazione ed adulterazione nella filiera olearia nelle fasi di lavorazione industriale ed approvvigionamento dall’estero di oli di minore qualità da spacciare come italiani. A tali aspetti si sono poi aggiunte le operazioni di contrasto delle Forze dell’ordine sia nel territorio sia in ambito marittimo e portuale, che hanno comportato il sequestro di prodotti agricoli esteri vietati o adulterati (ad esempio, farine OGM e oli di palma). In provincia di Verona l’intensità dell’agromafia risulta significativa soprattutto per il fenomeno dell’importazione di suini dal Nord Europa e indebitamente marchiati come nazionali sia per gli interventi delle Forze dell’ordine a contrasto dell’adulterazione di bevande alcoliche e superalcolici come nel caso della rinomata grappa locale.
Secondo il Rapporto, nonostante il crescente ruolo giocato dalle agromafie nel Settentrione, è nel Mezzogiorno che esse esprimono una maggiore e nociva diffusione. Nello specifico, tra le province che entrano nella “top ten” per un livello alto di criminalità organizzata del tipo dell’agromafia, ne sono state rilevate due in Calabria (Reggio Calabria, prima nella graduatoria nazionale, oltre a Catanzaro) e tre in Sicilia (Palermo, Caltanissetta e Catania), due in Campania (Caserta e Napoli) e Bari in Puglia.
Per quel che concerne le province calabresi, la casistica criminosa è particolarmente ampia: dal controllo delle produzioni agricole e della pastorizia, con il relativo indotto occupazionale, agli incendi boschivi, dalla adulterazione dei prodotti oleari, caseari e vinicoli fino al preoccupante il crescente fenomeno dell’abigeato. Nel territorio siciliano le evidenze sono profondamente simili a quelle riscontrate per la Calabria, ma oltre all’abigeato sono state rilevate massicce infiltrazioni nel mercato ortofrutticolo (dagli agrumi alla frutta fino agli ortaggi a foglia) e nella pesca (in particolar modo a Caltanissetta).
I comparti della distribuzione e dei trasporti dei prodotti agricoli e del pescato subiscono una forte infiltrazione da parte delle organizzazioni mafiose, contribuendo così all’artificiale rincaro dei prezzi dal produttore al distributore finale. Risultano, inoltre, fortemente significativi i furti di macchinari agricoli e i danneggiamenti delle colture, fenomeni da associarsi alle fattispecie criminose che ne sono la causa (estorsioni, usura, racket estorsivo). Relativamente nuovo risulta, invece, essere l’interesse delle agromafie per le plastiche da confezionamento ed imballaggio, a testimonianza della pervasività del tessuto criminale in ogni stadio della filiera.
Come precedentemente evidenziato, le province campane maggiormente interessate dal fenomeno agromafia sono quelle di Caserta e Napoli dove, con l’indiscutibile e intenso controllo del territorio locale operato dalla camorra, è possibile riscontrare, oltre ad alcune fattispecie omogeneamente diffuse (quali il controllo dell’autotrasporto, l’estorsione alle aziende agricole e la distribuzione su scala nazionale di prodotti adulterati nel settore della ristorazione), alcuni tratti distintivi. Nella provincia di Caserta l’agromafia si esprime nella sua forma più tradizionale, mediante un controllo oppressivo e ramificato dell’intera filiera agroalimentare, con particolare riguardo al comparto ortofrutticolo. Nel caso specifico di Napoli l’agromafia opera maggiormente agli stadi di lavorazione o manifattura (come nel caso del pane clandestino, ad esempio) o di distribuzione e approvvigionamento di prodotti connessi alla filiera agroalimentare. A Bari in Puglia le fattispecie criminose più significative sono costituite dalla sofisticazione (soprattutto dell’ortofrutta e dell’oleario), ma si assiste anche ad una escalation di furti nelle campagne.
“La presenza di importanti città portuali nella top ten dei capoluoghi di provincia colpiti dal fenomeno delle Agromafie dimostra che tali infrastrutture costituiscono non solo un volàno per lo sviluppo economico del territorio circostante, ma anche una opportunità di crescita, approvvigionamento e distribuzione per le organizzazioni criminali” ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel sottolineare “l’esigenza di fermare i traffici illeciti stringendo le maglie larghe della legislazione a partire dall’obbligo generalizzato di indicare in etichetta la provenienza degli alimenti e di rendere pubblici gli elenchi delle aziende che importano da paesi extracomunitari al fine di meglio garantire l’attività di controllo”.

Focus - Le Cosche a tavola
Dalle infiltrazioni nel settore ortofrutticolo del clan Piromalli all’olio extra vergine di oliva di Matteo Messina Denaro fino alle imposizioni della vendita di mozzarelle di bufala del figlio di Sandokan del clan dei Casalesi e al controllo del commercio della carne da parte della ‘ndrangheta e di quello ortofrutticolo della famiglia di Totò Riina, i più noti clan della criminalità si dividono il business della tavola mettendo le mani sui prodotti simbolo del Made in Italy. Lo afferma la Coldiretti che, a Roma per il Rapporto Agromafie 2017, ha allestito una “tavola delle cosche” con i prodotti frutto dei business specifici dei diversi clan mafiosi, camorristici e ‘ndranghetisti.
Solo nell’ultimo anno le forze dell’ordine hanno messo a segno diverse operazioni contro le attività della malavita organizzata, con arresti, sequestri e confische contro personaggi di primissimo piano della mafia che hanno deciso di investire ed appropriarsi di vasti comparti dell’agroalimentare e dei guadagni che ne derivano, distruggendo la concorrenza e il libero mercato legale e soffocando l’imprenditoria onesta. Il risultato è la moltiplicazione dei prezzi che per l’ortofrutta arrivano a triplicare dal campo alla tavola, ma anche pesanti danni di immagine per il Made in Italy in Italia e all’estero se non rischi per la salute.
Nel febbraio scorso i Carabinieri del Ros hanno smascherato le attività criminali in Calabria della cosca di ‘ndrangheta Piromalli che controllava la produzione e le esportazioni di arance, mandarini e limoni verso gli Stati Uniti, oltre a quelle di olio attraverso una rete di società e cooperative. Nello stesso mese ancora gli uomini dell’Arma hanno confiscato 4 società siciliane operanti nel settore dell'olivicoltura riconducibili a Matteo Messina Denaro e alla famiglia mafiosa di Campobello. Attraverso la gestione occulta di oleifici e aziende, intestate a prestanome, il boss era in grado di monopolizzare il remunerativo mercato olivicolo. Sempre agli inizi di febbraio i carabinieri hanno arrestato Walter Schiavone, figlio capoclan dei Casalesi Francesco "Sandokan" Schiavone. L’accusa è di imporre la fornitura di mozzarella di bufala Dop prodotta da un caseificio di Casal di Principe a distributori casertani e campani, ma anche in altre parti d'Italia, come in Calabria.
A novembre 2016 è la Dia a mettere a segno il sequestro dei beni di un imprenditore dei trasporti siciliano considerato lo snodo degli affari che il clan dei Casalesi conduce assieme al fratello di Totò Riina, Gaetano, per monopolizzare il trasporto di frutta e verdura da Roma in giù, grazie anche al controllo del grande mercato di Fondi, nell'agro-pontino. A giugno la Guardia di Finanza mette a segno un blitz – continua la Coldiretti - contro il clan camorristico Lo Russo. La cosca aveva il monopolio della distribuzione di pane e l'imposizione del prezzo di vendita, a grossi supermercati, a botteghe e agli ambulanti domenicali della zona.
Non c’è pace neppure nel centro della Capitale dove a maggio 2016 i carabinieri sequestrano beni per 80 milioni di euro tra i quali bar, ristoranti, pizzerie a quattro imprenditori, ritenuti coinvolti in traffici gestiti dalla camorra napoletana. Tutti i locali si trovano nel “salotto buono” di Roma, dalla zona di piazza Navona a quelle cosiddette “bene”. Pochi giorni prima, ad aprile, le fiamme gialle sequestrano beni per 33 milioni alla cosca di ndrangheta Labate. L’organizzazione criminale aveva il controllo del settore del commercio all’ingrosso e al dettaglio della carne.
“Di fronte a questa escalation senza un adeguato apparato di regole penali e di strumenti in grado di rafforzare l’apparato investigativo, l’enorme sforzo messo a punto dalla macchina dei controlli apparirà sempre insufficiente” ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel sottolineare che “bisogna, al più presto, portare all’esame del Parlamento o valutare l’ipotesi di una decretazione di urgenza, riguardo al testo della Commissione Caselli di Riforma dei reati agroalimentari per accendere il semaforo rosso alla rete criminale che avvolge da Nord a Sud tutte le filiere agroalimentari”.

Focus - Il caporalato sporca 1 piatto straniero su 5

Dal riso asiatico alle conserve di pomodoro cinesi, dall’ortofrutta sudamericana a quella africana in vendita nei supermercati italiani fino ai fiori del Kenya, quasi un prodotto agroalimentare su cinque che arriva in Italia dall’estero non rispetta le normative in materia di tutela dei lavoratori - a partire da quella sul caporalato - vigenti nel nostro Paese. Si stima che siano coltivati o allevati all’estero oltre il 30% dei prodotti agroalimentari consumati in Italia, con un deciso aumento negli ultimi decenni delle importazioni da paesi extracomunitari dove non valgono gli stessi diritti sociali dell’Unione Europea.
Riso, conserve di pomodoro, olio d’oliva, ortofrutta fresca e trasformata, zucchero di canna, rose, olio di palma sono solo alcuni dei prodotti stranieri che arrivano in Italia che sono spesso il frutto di un “caporalato invisibile” che passa inosservato solo perché avviene in Paesi lontani, dove viene sfruttato il lavoro minorile, che riguarda in agricoltura circa 100 milioni di bambini secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), di operai sottopagati e sottoposti a rischi per la salute, di detenuti o addirittura di veri e propri moderni “schiavi”. E tutto questo accade nell’indifferenza delle Istituzioni nazionali ed europee che anzi spesso alimentano di fatto il commercio dei frutti dello sfruttamento con agevolazioni o accordi privilegiati per gli scambi che avvantaggiano solo le multinazionali.
Un esempio è rappresentato dalle importazioni di conserve di pomodoro dalla Cina al centro delle critiche internazionali per il fenomeno dei laogai, i campi agricoli lager che secondo alcuni sarebbero ancora attivi, nonostante l’annuncio della loro chiusura. Nel 2016 sono aumentate del 43% le importazioni di concentrato di pomodoro dal Paese asiatico che hanno raggiunto circa 100 milioni di chili, pari a circa il 10% della produzione nazionale in pomodoro fresco equivalente. In questo modo, c’è il rischio concreto che il concentrato di pomodoro cinese, magari coltivato da veri e propri “schiavi moderni”, venga spacciato come Made in Italy sui mercati nazionali ed esteri per la mancanza dell’obbligo di indicare in etichetta la provenienza.
Un problema che riguarda anche il riso straniero i cui arrivi in Italia hanno raggiunto il record nel 2016, con una vera invasione da Oriente da cui proviene quasi la metà delle importazioni secondo il Rapporto Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare. L’aumento varia dal +489% per gli arrivi dal Vietnam al +46% dalla Thailandia per effetto dell’introduzione da parte dell’Ue del sistema tariffario agevolato per i Paesi che operano in regime EBA (Tutto tranne le armi) a dazio zero. Un regalo alle multinazionali del commercio che sfruttano gli agricoltori locali, i quali subiscono peraltro lo sfruttamento del lavoro anche minorile e danni sulla salute e sull’ambiente provocati dall’impiego intensivo di prodotti chimici vietati in Europa.
Rilevanti sono anche le importazioni di nocciole dalla Turchia sulla quale pende l’accusa per lo sfruttamento del lavoro delle minoranze curde, ma il problema dello sfruttamento riguarda anche le rose dal Kenya per il lavoro sottopagato e senza diritti, i fiori dalla Colombia dove è stato denunciato lo sfruttamento del lavoro femminile o la carne dal Brasile dove è stato denunciato il lavoro minorile. Le banane sono il terzo frutto più consumato in Italia, ma su quelle che vengono dall’Ecuador sono stati segnalati trattamenti chimici fuorilegge in Europa, mentre lo zucchero di canna, divenuto di gran moda, viene ottenuto in Bolivia in piantagioni dove si segnala l’abuso di stimolanti per aumentare la resistenza al lavoro. Ma ci sono trattative in corso anche per i prodotti frutticoli con i Paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay) dove non ci sono le stesse norme di tutela di lavoro vigenti in Italia.
L’Argentina, che è nella lista nera del dipartimento di Stato americano per lo sfruttamento del lavoro minorile nelle coltivazioni di aglio, uva, olive, fragole, pomodori, ha aumentato le esportazioni di prodotti ortofrutticoli in Italia del 17% nel corso del 2016. O ancora l’Egitto con le importazioni di ortofrutta in Italia che sono aumentate del 20% nel 2016 rispetto all’anno precedente raggiungendo i 100 milioni di euro. Le fragole dell’Egitto sono indicate dal sistema di allarme rapido UE (RASFF) tra i cibi più contaminati per residui chimici, con le melagrane che superano i limiti in un caso su tre (33%). Ma fuori norma dal Paese africano sono anche l’11% delle fragole e il 5% delle arance che arrivano peraltro in Italia grazie alle agevolazioni concesse dall’Unione europea. Un pericolo per la salute dei consumatori, ma anche degli agricoltori locali spesso vittime di sfruttamento.
Un caso a parte è quello delle importazioni di olio di palma ad uso alimentare che in Italia sono più che raddoppiate negli ultimi 20 anni raggiungendo nel 2016 circa 500 milioni di chili. Uno sviluppo enorme che sta portando al disboscamento di vaste foreste senza dimenticare l’inquinamento provocato dal trasporto a migliaia di chilometri di distanza dal luogo di produzione e naturalmente le condizioni di sfruttamento del lavoro delle popolazioni locali private di qualsiasi diritto. “Non è accettabile che alle importazioni sia consentito di aggirare le norme previste in Italia dalla legge nazionale sul caporalato ed è necessario, invece, che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali rispettino gli stessi criteri a tutela della dignità dei lavoratori, garantendo che dietro tutti gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un percorso di qualità che riguarda l’ambiente, la salute e il lavoro, con una giusta distribuzione del valore a sostegno di un vero commercio equo e solidale”, ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo, seguito dal ministro della giustizia Andrea Orlando, intervenuto alla presentazione del Rapporto, il quale, pur denunciando la gravità della situazione, ha voluto mettere in guardia dal trarre facili conclusioni: “La piaga del caporalato e lo sfruttamento illegale della manodopera sfruttano la situazione per la manovalanza a basso costo, anche se il problema non è solo quanto poco ti pagano, ma la condizione di schiavitù. Spesso su questi argomenti si fanno associazioni troppo automatiche, quindi attenzione a non fare “caporalato uguale immigrazione”, perché l’ultima donna morta era una lavoratrice pugliese”.

Focus - Italia leader nei controlli dai campi agli scaffali

Sono oltre 200.000 i controlli effettuati dalle forze dell’ordine nel 2016 per combattere le agromafie dal campo allo scaffale e garantire all’Italia il primato nella qualità e nella sicurezza alimentare. Una attività di controllo quotidiana e capillare tra il Comando Carabinieri per la Tutela della Salute (Nas), Nuclei Antifrodi Carabinieri (Nac) del Ministero delle Politiche Agricole e Alimentari, lo Scico-Gdf, il Corpo Forestale ora confluito nel Comando Unità per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare dell’Arma, l’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari e la Guardia costiera. “Si tratta - ha sottolineato il presidente della Coldiretti - di un presidio a difesa non solo del tessuto economico, ma anche della salute dei cittadini, dell’ambiente e dell’intero territorio nazionale. In Italia le attività criminali nell’agroalimentare si scoprono perché c’è una attività di controllo all’avanguardia a differenza di quanto avviene in altri Paesi dentro e fuori dall’Unione Europea”.
Uno studio della Coldiretti sulla base dell’ultima relazione dell’Autorità per la sicurezza alimentare (Efsa) evidenzia che il 6,5% dei campioni provenienti da Paesi extracomunitari, conteneva residui superiori ai limiti di legge, soprattutto per la presenza di tracce di pesticidi non approvati nell'Ue mentre al contrario secondo il “National summary reports on pesticide residue” pubblicato dall’Efsa appena lo 0,3% dei prodotti Made in Italy - sottolinea la Coldiretti - contiene residui chimici oltre il limite con la percentuale che sale all’1,6% per i prodotti di origine comunitaria.
In Italia ci sono le regole produttive più rigorose nelle caratteristiche dei prodotti alimentari, dal divieto di produrre pasta con grano tenero a quello di utilizzare la polvere di latte nei formaggi fino al divieto di aggiungere zucchero nel vino che non valgono in altri Paesi dell’Unione Europea, dove si assiste ad un crescendo dell’uso di surrogati, sottoprodotti e aromi vari che snaturano l’identità degli alimenti. Senza dimenticare la decisione nazionale di vietare la coltivazioni di organismi geneticamente modificati (Ogm) fortemente sostenuta dalla Coldiretti e il primato europeo con oltre 50.000 imprese agricole biologiche e la leadership nelle produzioni tutelate con 289 specialità a denominazione di origine (Dop/Igp).

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