Non sembri argomento di secondo piano il colore del vino. Dietro il colore ci sono tecniche di produzione, successi o, al contrario, insuccessi di mercato, soprattutto quando si tratta di vini differenti da quelli, la maggioranza, classificati come bianchi e rossi, come gli “orange wine” - per usare uno dei nomi di quei vini dal colore ambrato nel bicchiere - o i “rosati”. Se ne è parlato a Wine2Wine, il business forum di Vinitaly, con punti di vista diversi, arrivati da produttori, giornalisti e wine writer.
“Non si possono classificare i vini “arancioni” - ha spiegato Simon Woolf, wine writer inglese e autore del libro “Amber Revolution”- in base al colore e neppure identificarli con una filosofia produttiva, ma è necessario collocarli in una specifica categoria per fare chiarezza presso il consumatore. Così come i rossi e i bianchi si ottengono, rispettivamente, con una fermentazione dei mosti con e senza le bucce, questi derivano da varietà a bacca bianca con contatto pellicolare prolungato. La loro definizione discende dalla tecnica enologica!”.
Si tratta di una nicchia in continua crescita da quel 2000 in cui Josko Gravner, uno dei produttori più iconici del panorama italiano, ha prodotto il primo vino di questa tipologia. Oggi sulle carte dei vini dei ristoranti compaiono sezioni dedicate agli “orange wine”, così come sugli scaffali delle enoteche. Nel mondo attualmente si contano 800 produttori in ben 32 Paesi, Georgia e Italia in testa, tra cui si affacciano anche il Giappone e altri “insospettabili” come l’Indonesia. E il profilo dei vini, pur sempre dai piccoli numeri, sta cambiando.
Non esiste una denominazione univoca per questi vini e neppure una uniformità, neppure nel colore, che va dall’arancio al giallo, come nel caso di una Nosiola trentina che rimane per molti mesi sulle bucce in anfora, perché gli stessi produttori sono divisi circa la denominazione più appropriata.
“Rispetto al nome “orange wine” - ha proseguito Woolf - alcuni ritengono suggerisca l’uso di arance. Ma non credo si tratti di una confusione realmente possibile. Poi c’è chi pensa che questa denominazione sia identificabile con i vini “naturali strani” e possa confondere e, infine, quelli che “i miei vini non sono di questo colore”! Allora come chiamarli? “Amber wine”, come preferisce chiamarli Josko Gravner, termine forse un poco esoterico utilizzato in Georgia, luogo dove da più tempo si produce questo vino, che però è anche il nome di alcuni vini dolci francesi. Certo è che sul web digitando “orange wine” appaiono 1 miliardo 800 milioni di risultati”.
“C’è molto interesse per gli “amber wine” non solo in Italia e non solo tra i ragazzi giovani - ha spiegato Mateja Gravner - una volta il loro consumo era ad appannaggio degli hipster e dei “fighetti”. Oggi sono più diffusi ed è bello che mentre prima bastava che questi vini fossero “strani” oggi è necessario anche che siano di qualità. Comincia ad esserci conoscenza, fattore che trovo molto importante perché è giusto che al consumatore arrivino vini fatti bene. Normalmente chi si approccia a questa tipologia accetta anche qualche piccolo difetto, ma parliamo di gusti personali rispettabili. Si sta però andando verso una maggiore pulizia e questo è un bene: la moda si sta sgonfiando e rimane chi li fa convintamente”.
Pochi sono i Paesi in cui la tipologia è normata e questo crea problemi. Laddove, come in Ontario (Canada), vengono classificati come “skin macerated wine” non si parla di colore per definirli e, soprattutto, i produttori possono dichiarare la tipologia in etichetta. In Italia si deve ricorrere alla descrizione della tecnica di produzione in retroetichetta. Un esempio, al contrario, di orange wine “sotto mentite spoglie” è quello del Pinot Grigio “ramato”, che a torto o ad arte oggi passa per un rosato.
La stessa riflessione circa il colore e l’identità di una categoria di vini si può applicare ai vini rosati, o meglio, ai “vini rosa” come intende ribattezzarli l’Istituto del Vino Rosa Autoctono Italiano, nato nel marzo 2019, che rappresenta le diverse espressioni di vini rosa “indigeni” italiani prodotti con vitigni autoctoni.
“Si tratta di un nome che non indica il colore del vino nel calice, ma la tipologia - ha spiegato Angelo Peretti, tra i fondatori dell’Istituto - un cappello corretto sotto il quale comprendere tutta la variabilità delle nostre produzioni per far crescere la cultura di questi vini prima di tutto in Italia. Vini che hanno colori molto differenti frutto non solo del vitigno, ma della tecnica adottata che ha radici storiche. L’uso del torchio a nord introdotto dai Romani all’origine dei colori chiari dei Chiaretti prodotti sulle sponde del Lago di Garda e dei Kretzer altoatesini; del palmento eredità dei Greci per i vini più colorati del centro-sud, come il Cerasuolo d’Abruzzo, i pugliesi Castel del Monte e Salice Salentino e il calabrese Gaglioppo di Cirò”.
“Il successo attuale dei rosé provenzali - ha spiegato Robert Camuto, giornalista americano che vive in Europa dal 2001, collaboratore di Wine Spectator - scaturisce dalla ricerca enologica e dall’applicazione di tecnologia. Vent’anni fa la virata da colori carichi al rosa pallido. Oggi il momento di boom dei rosé si fonda su ragioni diverse: l’attrazione estetica da parte dei consumatori, e produttiva da parte dei produttori. Sul più grande mercato del vino, quello Usa, i rosé francesi storicamente la fanno da padroni, ma si registra una lieve flessione. L’Italia dovrebbe attrarre l’attenzione dei consumatori statunitensi sui propri vini rosa”.
“I vini rosa italiani non sono molto forti negli Usa - ha sottolineato Tara Empson, Ceo di Empson & Co. e di Empson Usa, storico distributore storicamente attento alla produzione italiana - se non grazie ad aziende statunitensi basate anche in Italia. Per affermarli dovete spingere sulla loro identità, che va di pari passo con la vostra cultura: questa è l’arma segreta del vino italiano. Non seguite la moda e ne uscirete più forti. Nelle zone di produzione francesi tutto parla di rosé, da voi nei ristoranti e nei territori questi vini non emergono, voi stessi li considerate poco, come potete convincere i buyer ad acquistarli?”.
Ad oggi, a parte alcune aziende che stanno fortemente puntando su etichette particolari, i numeri dei vini rosa italiani premium sono esigui ed è difficile pensare a grandi exploit con queste quantità, pari a quanto i francesi esportano negli Usa! Si tratta di 20 milioni di bottiglie in totale che potranno crescere di pari passo con la consapevolezza del valore di questa tipologia e della valorizzazione di vigneti particolarmente vocati a questa produzione, come si sta facendo nell’area di produzione della denominazione Bardolino, dove il Chiaretto sarà prodotto da vigneti dedicati.
“Rispetto al successo dei rosé siamo in ritardo - ha concluso Peretti - ma non è importante perché c’è spazio per crescere. Possiamo raddoppiare i numeri facendo crescere la nostra stessa considerazione dei vini rosa italiani, che sono non vini di immagine, ma storicamente consumati in famiglia nelle zone di produzione”.
Il prossimo “avvento” del Prosecco rosa con i 76 milioni di bottiglie previsti, potrà probabilmente trainare l’immagine dei vini rosa italiani. “Dovete imparare dai francesi - ha esortato Tara Empson a Winenews - ad arrivare sui mercati, consolidare e crescere anche a livello di valore. Molto spesso i produttori dello stesso territorio si fanno guerra l’uno con l’altro per la presenza nella carte dei vini sul prezzo. Una strategia davvero poco astuta perché non si può scendere sotto certi livelli e vendere l’anima”.
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