Il futuro della cucina italiana? Da Enrico Bartolini a Norbert Niederkofler, da Massimo Bottura a Massimiliano Alajmo, da Enrico Crippa a Heinz Beck, da Niko Romito a Riccardo Monco, da Giovanni Santini ad Antonino Cannavacciuolo, WineNews lo ha chiesto agli chef più famosi d’Italia, i Tre Stelle Michelin incoronati dall’edizione dei record della Guida Michelin Italia 2024, insieme a Mauro Uliassi, i Cerea e Fabrizio Mellino, ieri al Teatro Grande di Brescia, in Franciacorta, “Destination Partner” della “Rossa” che racconta un’Italia con quasi 400 Stelle. E con i quali - anche nelle nostre interviste su WineNews.Tv - abbiamo parlato del valore della candidatura della Cucina Italiana all’Unesco, delle esperienze che oggi cerca la clientela, di come sta andando il vino nell’alta ristorazione, di chef ambasciatori dei territori e “sostenibili”. E, soprattutto, di come trasmettere tutto questo alle nuove generazioni che vogliono entrare nel mondo della ristorazione.
“Le nuove generazioni sono attratte dal mondo della ristorazione. Anche io sono giovane, e sono il primo ad esserne attratto - ci ha detto Enrico Bartolini, lo chef più stellato d’Italia con ben 13 Stelle Michelin su 9 ristoranti, secondo al mondo solo ad Alain Ducasse, a partire dal tristellato Enrico Bartolini al Mudec di Milano e con la nuova Stella del ristorante Bluh Furore a Furore in Costiera Amalfitana - se si trasmettono buoni valori e si danno belle opportunità i giovani non vedono l’ora di seguire esempi ed esperienze vissute che oggi si ripropongono in modo diverso. Testimoniare la nostra adolescenza o l’inizio dell’attività è un aspetto culturale bello, ma oggi il mondo sta cambiando e ancora più velocemente di prima e perciò dobbiamo dare degli input adatti alla società che è più rapida e multimediale. Anche l’approccio alla cucina non è solo di avanguardia e modernità, ma c’è anche un sentimento umano legato alla sala e all’atmosfera che è più profondo di qualche anno fa. Il mio messaggio ai giovani che vogliono entrare in questo mondo è fossilizzarsi e ossessionarsi alla cultura del mestiere, amarlo e seguire qualcuno che possa loro indicare una strada. Una strada che quando inizia a prendere piede e si è liberi e vogliosi di esprimere la propria personalità, racconterà l’identità del giovanotto che è diventato più maturo ed esperto, pronto a fare il suo percorso e raggiungere il successo”. Un successo che, ultimamente, tra luci e ombre, fa parlare di “insostenibilità” dell’alta cucina. “Il fine dining come tutto il mondo del lusso in generale, di cultura non di denaro, è sostenibile se si propongono cose buone e concrete per ospiti che le apprezzano, e se si vendono al giusto prezzo. L’Italia è troppo piccola per ospitare tutto il mondo, e tutto il mondo vorrebbe venirci, per questo sono ottimista e penso che chi vuol fare fine dining o casual dining o solo casual, è benvenuto e il nostro Paese, grazie alla sua biodiversità ed ai suoi operatori, è il posto giusto”.
Lo sanno bene i nostri grandi chef, come Norbert Niederkofler, nuovo tristellato - insieme al giovanissimo Fabrizio Mellino, 33 anni, chef del Quattro Passi di Nerano in Costiera Amalfitana - entrato nella storia della Guida Michelin per aver ottenuto da zero a Tre Stelle per un nuovo ristorante, l’Atelier Moessmer di Brunico, nel solco della sua grande filosofia in cucina, “Cook The Mountain”, e per il quale essere ambasciatori dei nostri prodotti, territori e comunità, vuol dire “lavorare sulla natura attorno a noi, perché è ciò che abbiamo di più importante. E perché per prima cosa significa dare più valore ai territori, secondo vuol dire far capire ai giovani che saranno i cuochi del futuro dove affondano le loro radici, e terzo mantenere le nostre tradizioni. In Italia dobbiamo cercare di conservare tutto quello che abbiamo, che è tanto, perché è così che siamo e possiamo essere i numeri uno al mondo”. Uno chef per il quale “la sostenibilità oggi è una grande parola, ma che sminuisce il suo significato, che per me è il rispetto. Io sono nato in montagna dove c’è tanto rispetto per la natura e penso che dobbiamo ripensare tutti i nostri valori e rivedere ciò che viene comprato, consumato e buttato via. Dobbiamo avere più rispetto per la Terra, perché ne abbiamo una e non abbiamo il “mondo B””. E nel mondo nel quale viviamo, tra le grandi città, la provincia italiana e l’estero, Niederkofler non ha dubbi su quale sia il luogo più stimolante per aprire un ristorante, anche in termini di territorio e ciò che offre, dalle produzioni alle persone: “è l’Italia, perché ha un valore pazzesco e offre ancora tante possibilità. A me, in particolare, interessano quei posti dove puoi “viaggiare” nel futuro e dare una mano ai giovani ad aprire le porte del mondo del lavoro. E mi interessa il futuro perché ho 62 anni e vorrei passare la palla …”.
“Nel futuro della cucina italiana, c’è sempre futuro, perché nel mio futuro e nella testa di ogni grande persona creativa c’è sempre futuro - spiega Massimo Bottura, il “re” della cucina italiana, che, con il suo eclettismo e la sua energia, ha portato ai vertici del mondo con la sua tristellata Osteria Francescana di Modena - che cosa è la creatività? È mettere in pratica i sogni, e ai giovani dobbiamo insegnare a saper sognare e sognare sempre di più. Perché nel momento in cui sai sognare mettere in pratica i sogni vuol dire essere creativi. Bottura è Bottura da solo, con la sua squadra è l’Osteria Francescana, e questo è un altro aspetto molto importante, perché tutti parlano troppo di se stessi dimenticandosi di tutto ciò che hanno attorno. Ma con la squadra si vince e si perde insieme, e la soddisfazione sarà doppia e la delusione la metà. È questo il messaggio per creare ancora più futuro”. Senza, ovviamente, perdere la memoria “perché tutti i nostri sapori sono “distillati” da secoli di storia italiana: è questa la nostra grande forza. La biodiversità che abbiamo nel nostro territorio ci consente di creare una cucina così complessa ed è ciò che attrae i turisti del mondo che vengono per conoscere i nostri grandi gastronomi e per capire cosa significa passare da un paesino all’altro e veder cambiare la cucina. Mai dimenticarsi chi sei, e da dove vieni”.
Talento, territorio, biodiversità, sostenibilità: sono, dunque, parole chiave del futuro dell’alta cucina italiana, che, però, si possono declinare in molti modi. E tra questi, c’è, ovviamente, il connubio perfetto che è l’abbinamento tra l’alta cucina e i vini italiani. Massimiliano Alajmo, chef dello storico tristellato Le Calandre di Rubano, spera che nei prossimi anni “ci sia la volontà di portare avanti l’uomo e la materia, che rappresentano l’essenza profonda del nostro mestiere, e mi auguro che sia l’autenticità a prevalere. In questo momento lo stile italiano, soprattutto, è riconosciuto, basti pensare anche ai più grandi direttori di sala nel mondo che sono stati e sono italiani. Il nostro cibo, che dobbiamo difendere, è un elemento della nostra civiltà di cui dobbiamo essere orgogliosi, e in questo senso passi avanti ci sono stati, soprattutto tra gli italiani all’estero che spesso ne sono più orgogliosi di noi che viviamo in Italia”. Lo stesso si può dire per i nostri vini: “è un momento culturale storico fondamentale in cui la cucina italiana si accompagna al vino, in una liaison molto forte, che lascia comunque spazio anche a nuove sperimentazioni”.
“Nelle Langhe, il vino, e soprattutto il vino italiano, sta andando alla stragrande. E per me è sempre il più grande compagno della cucina”, dice Enrico Crippa, chef del Piazza Duomo di Alba, in partnership con la famiglia Ceretto, tra i nomi di punta del vino del territorio, per il quale “sarebbe bello che nel futuro della cucina italiana ci fossero tutte quelle parole messe insieme. Ci sono già perché sono ciò che rendono unica l’Italia, ma dobbiamo saperle sfruttarle al massimo e noi chef dobbiamo portarne avanti i valori. Oggi la clientela vuole conoscere e capire bene i territori che visita, “camminando” con la testa dello chef e mano nella mano con la sua creatività, ma anche un’accoglienza di qualità”. Anche per Heinz Beck, chef de La Pergola del Rome Cavalieri, storico punto di riferimento dell’alta ristorazione di Roma e d’Italia, “il vino nell’alta ristorazione va molto molto bene, soprattutto il vino italiano. Noi ci abbiamo sempre puntato molto, e infatti più del 60% della nostra lista è fatta da territori italiani. Abbinare il cibo ad un buon bicchiere di vino è meraviglioso, e se sei bravo a farlo ne guadagniamo tutti, dai produttori a noi chef che accompagniamo i nostri piatti con un loro calice”. E, soprattutto, la clientela “che oggi cerca equilibrio, la salute, l’innovazione, e anche un po’ di divertimento. Per crescere ancora in futuro non dobbiamo dimenticare che senza talento non c’è qualità e non c’è rinnovamento. La biodiversità non deve essere mai dimenticata, mai persa, e il territorio è ciò che racconta la storia di dove veniamo, la cultura, le nostre radici”.
Niko Romito, chef patron del Ristorante Reale di Castel di Sangro, e piccolo produttore di vino nella sua Tenuta Casadonna, in Abruzzo, spiega che “dobbiamo essere capaci di interpretare il luogo dove siamo e renderlo fruibile, e bisogna stare sempre più attenti al rapporto cibo-salute, lanciando il messaggio che mangiare bene vuol dire anche mangiare sano. L’unicità e l’identità sono alla base di un’esperienza di qualità che non è solo il dire “ho mangiato bene”, ma che dopo aver provato un ristorante inizio a pormi delle domande, e a capire sempre di più che il cuoco può lavorare con materie prime normali, comuni, domestiche, e portarle in un’altra dimensione. Per me è questo che deve fare il cuoco del futuro in un Paese così importante e biodiverso come l’Italia”. Anche in termini di vino: “io ho diversi ristoranti, in Italia e nel mondo, e mi rendo conto che il vino, insieme al cibo, crea l’esperienza. Ci sono due tipi di clientela: quella un po’ più neofita che cerca il vino più conosciuto, e quella che è più esperta e che cerca novità, e quindi sono i sommelier e chi si occupa di vino che devono saper proporre anche produttori meno conosciuti, ma che realizzano grandi etichette”.
Il fatto che il vino nell’alta ristorazione stia andando “molto bene è un bel segnale, e noi lo abbiamo visto quest’anno, grazie alla grande affluenza di turisti da tutto il mondo, in particolare americani e brasiliani, e sono soprattutto loro che cercano la grande bottiglia, ma anche quella del produttore sconosciuto da scoprire. Gli italiani sono sempre molto attenti, ma si lasciano consigliare anche da noi che sappiamo fare il nostro mestiere. Se il vino sarà sempre il compagno ideale della buona tavola? Soprattutto in Via Ghibellina 89”, indirizzo dell’Enoteca Pinchiorri, scherza Riccardo Monco, chef dello storico e prestigioso ristorante Tre Stelle Michelin di Firenze e vero e proprio “tempio” del vino mondiale. Per il quale, nel futuro “sicuramente c’è tanto talento, con il quale si può scegliere quale direzione prendere. Chiaramente stando attenti a quello che succede nel mondo, per essere precursori, e capire quali sono le mode e lanciarne di nuove, ma a volte anche facendo un passo indietro, in questo momento storico in cui si tende più ad esagerare in tutti gli aspetti”.
“Noi chef, abbiamo un ruolo fondamentale - sottolinea Giovanni Santini, che, con la famiglia, ovvero con la mamma Nadia, che affianca ai fornelli, ed il padre Antonio, maestro di sala, insieme al fratello Alberto, guida uno dei Tre Stelle più longevi d’Italia, il Dal Pescatore a Canneto sull’Oglio - che è quello di prendere in mano ciò che qualcuno coltiva e alleva, e trasformarlo nel miglior modo possibile per far sì che il nostro territorio o quello di origine della materia prima sia riconoscibile. Siamo ambasciatori di diversità e di unicità. E in un mondo che è sempre più globalizzato è chiaro che se noi abbiamo la possibilità di distinguerci abbiamo una grande carta da giocare”. Lo è anche la sostenibilità, che dovrebbe essere “un progetto che lascia dietro di sé meno tracce possibili, e contemplare anche la sostenibilità dell’uomo e sociale nei confronti di quello che ci circonda. Io sono uno che non lascerebbe mai la campagna, che è stato cresciuto da genitori e nonni che non l’hanno mai abbandonata, e pur sentendo da bambino che a mamma e papà è stato chiesto di aprire altri ristoranti in altri luoghi, loro non lo hanno mai fatto. Noi, la mia generazione, mia e di mio fratello e di mia moglie, abbiamo deciso di aprire anche un’azienda agricola. Credo che la risposta sia tutta qui”.
Un ruolo che la candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Unesco non può che ribadire e che, per Antonino Cannavacciuolo, Tre Stelle Michelin per il Villa Crespi a Orta San Giulio sul Lago d’Orta, e tra i più amati anche in tv, aspettando “MasterChef Italia” n. 13, “è un onore. Parliamo sempre della cucina come la nostra forza, in uno Stivale che “balla e canta” di cibo dal Trentino alla Sicilia, grazie ai piccoli produttori e alle nostre aziende. E le Stelle italiane crescono perché dietro ci sono proprio anche i piccoli produttori, dai contadini ai pescatori, agli artigiani, tra chi fa il formaggio o chi fa il vino, che si sporcano le mani per portare i loro prodotti nelle nostre cucine e che noi cuciniamo e serviamo. Tutti stanno cercando di fare bene perché hanno capito che la qualità premia e oggi abbiamo tanti professionisti che ci mettono a disposizione ingredienti belli che noi dobbiamo toccare ben poco”, prosegue lo chef. Il suo messaggio ai giovani? “Nel mondo della ristorazione c’è spazio per tutti, come in tutti i lavori, basta avere passione e quel fuoco che ti brucia. Ed è con questi che devi fare il tuo percorso, prima che considerarlo un lavoro, così che non ti stanchi mai di andare avanti. Nel futuro della cucina italiana c’è del buono, c’è sempre stato e ci sarà sempre, perché siamo un Paese a cui tutti vogliono bene per il cibo”. E per il vino, “il cui abbinamento con il cibo è il connubio perfetto e non si può immaginare una tavola senza una bottiglia: sarebbe come Napoli senza il Vesuvio”.
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