Avere l’amaro in bocca è sinonimo di provare un sapore o una situazione sgradevoli. Eppure dai radicchi ai carciofi, dal caffè ai digestivi, ha un ruolo privilegiato nel gusto degli italiani: nessun’altra cucina europea come quella italiana ha una predilezione così marcata per questo sapore, che affonda le radici nell’incontro tra cultura contadina e cultura alta, e la spiegazione non va cercata nella genetica, ma nella storia, perché il meccanismo del gusto non è solo biologico, ma anche e soprattutto culturale. È così che l’amaro, prodotto e parola che solo in Italia assume una connotazione che è anche positiva, e che nel passato è stato spesso associato anche al concetto dello “stare bene”, si prende la sua “rivincita” grazie alla storia e ad uno dei massimi storici dell’alimentazione al mondo: Massimo Montanari, autore del volume, “Amaro. Un gusto italiano” (Edizioni Laterza, 2023, pp. 136, prezzo di copertina 13 euro), un sorprendente itinerario che mette a fuoco un aspetto affascinante e caratteristico della cultura italiana scavando tra fonti letterarie e trattati di botanica, agricoltura, cucina e dietetica (di cui l’autore ha parlato, nei giorni, scorsi, a “Slow Wine Fair” 2024 a Bolognafiere con Slow Food dove WineNews lo ha incontrato e intervistato in un audio prossimamente online).
“La percezione dei sapori ha a che fare con la biologia, ma poi a valutare se siano buoni o cattivi non sono solo le papille gustative, ma il cervello che è anche abitudine, cultura, tradizione, moda - spiega, a WineNews, Massimo Montanari - ci sono tutta una serie di parametri che appartengono alle società e alla loro cultura che determinano il modo di valutare ciò che io vedo, sento, ascolto o percepisco in bocca. Per questo ogni società ha i suoi parametri e una sua estetica, e ciò che piace ad una non piace ad un’altra. Nel gusto italiano si è sviluppata storicamente un’attenzione positiva così forte verso l’amaro, che non c’è in nessun altro Paese, almeno a livello europeo, perché non mi sono spinto a domandarmi all’universo-mondo. La scintilla che mi ha spinto a farlo è stato il libro “L’amer” del gastronomo francese Emmanuel Giraud che ha vissuto in Italia e una volta tornato in Francia si è accorto che gli mancava qualcosa del nostro Paese ed era il gusto amaro dei radicchi, delle cicorie, dei carciofi, dei cardi e si potrebbe arrivare fino al caffè, al cioccolato e agli amari, intesi come liquori che non sono esclusivi dell’Italia, però hanno qui una fortissima presenza a livello capillare, tanto che ogni città, e addirittura a volte ogni locale, ha il suo. Un aspetto che mi spiego con la radice profondamente contadina della cucina italiana, cioè con il fatto che la maggior parte degli esempi che ho citato e potrei citare sono legati alle erbe, alle radici e alle piante, che sono elemento essenziale dell’alimentazione contadina e costruiscono all’interno del gusto contadino un’abitudine al sapore amaro. Che, però, non rimane esclusivo delle classi contadine, ma diventa un elemento di condivisione anche a livello alto e questo è il segreto della ricchezza della cucina italiana: il fatto che l’alta cucina, a differenza di quello che è avvenuto in altri Paesi, non si è separata totalmente dalla tradizione contadina, ma solo teoricamente ed ideologicamente, per poi riprenderne gusti e prodotti, rivalorizzandoli in modo diverso. L’amaro è così transitato nell’alta cucina, e per questo parlo di gusto italiano, senza aggettivi. E che sia buono, me lo ha confermato il mio amico gastronomo francese dalla sua visione esterna. Un modo per riflettere su come si è costruita la tradizione gastronomica italiana, che è molto ricca, perché è riuscita a mettere insieme elementi da fuori e da dentro, da tanti luoghi, e da classi sociali diverse”.
E forse è anche per questo che il gusto amaro fa tornare alla ribalta nei consumi proprio il mondo degli amari, che sempre di più si stanno lasciando alle spalle il loro sapore “d’antan”, a partire proprio dal nostro Paese, “patria” per eccellenza, dall’Ottocento, del Fernet Branca, dell’Amaro Ramazzotti, dell’Amaro Lucano, del Montenegro, dell’Averna, del Cynar, del’Amaro del Capo e del Braulio, solo per citare i più famosi. Che, tra spot e claim memorabili, dalla “Milano da bere” a “cosa vuoi di più dalla vita” - come ricorda il “Gastronauta” Davide Paolini nel domenicale “A me mi piace” sul quotidiano “Il Sole 24 Ore” - sono passati dal ruolo di immancabile digestivo a fine pasto a “bicchierino” per pochi veri estimatori, a fronte dell’enorme successo che nel frattempo hanno avuto alcolici e distillati, i cocktail e la mixology. Ma proprio da quest’ultima, parte oggi la loro rinascita, e, a volte, la nascita di un nuovo amaro, spinta anche dalla passione per erbe e foraging, per le produzioni artigianali e sostenibili, in una parola contadine. E grazie a quel “gusto pieno della vita” - citando l’Amaro Averna, oggi del Gruppo Campari, nel cui ultimo spot a vestire i panni di Don Salvatore, fondatore dell’azienda siciliana, è l’attore hollywoodiano Andy Garcia - che danno nella miscelazione, e che è quello del sapore made in Italy.
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