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TERRITORI & INVESTIMENTI

Il Monte Baldo e un nuovo modello di espansione della viticoltura in altitudine in risposta al clima

Giornata di studi promossa dalla griffe Albino Armani: “non si può più prescindere dalla ricerca di un equilibrio tra comunità locali e viticoltura”

Se è vero che salire di quota è una risposta al cambiamento climatico e che si può fare viticoltura anche a 1.000 metri sul livello del mare, non si può non declinare gli elementi della vocazione viticola in modo nuovo, sia approfondendo gli aspetti puramente tecnici, sia considerando l’elemento antropologico, normalmente ignorato, coinvolgendo le comunità locali per introdurre la viticoltura in montagna nel rispetto del paesaggio e degli equilibri territoriali. Arriva dall’Altipiano del Baldo, in Trentino, la proposta di un nuovo modello di espansione della viticoltura in altitudine sulla spinta del riscaldamento globale, e della quale si è parlato ne “Il Monte Baldo trentino, un dialogo tra viticoltura e paesaggio di montagna”, un focus di approfondimento e confronto, nei giorni scorsi a Palazzo Eccheli-Baisi a Brentonico, promosso da Albino Armani, l’imprenditore vitivinicolo che agisce in Veneto, in Friuli e da diversi anni sul versante trentino del Monte Baldo, nel quale già nel 1607 i suoi avi coltivavano la vite, e dove, oggi, stanno arrivando diverse aziende, attratte dalla vocazione di questo territorio.
Il Monte Baldo - cerniera alpina tra Veneto, il Garda e la Vallagarina trentina - è un’area di particolare pregio dal punto di vista naturalistico. Considerata il giardino botanico d’Europa, paradiso di biodiversità con oltre 1.660 piante diverse, ha avviato il percorso per la candidatura Unesco. Come dimostrano i documenti storici, la viticoltura faceva parte del paesaggio e dell’economia della montagna dei versanti trentini già oltre 4 secoli fa. Nel futuro, che è già oggi, si prospetta un suo ritorno che a fronte dei recenti acquisti di terreni da parte di diversi imprenditori richiede particolari attenzioni.
Nella giornata di studio, agli approfondimenti su temi tecnici e storici, affidati a relatori quali il professor Attilio Scienza, tra i massimi esperti di viticoltura al mondo, Andrea Faustini, enologo Cavit, Duilio Porro della Fondazione Edmund Mach, Alessandro De Bertolini della Fondazione Museo Storico del Trentino, Gianluca Telloli di Proposta Vini, e Michael Hock, direttore Cantina St. Jodern Kellerei nel Vallese in Svizzera, e che hanno proposto anche punti di vista inediti, ha fatto seguito un confronto sulle prospettive della viticoltura in questo territorio tra i produttori che già vi operano o che sono in procinto di farlo, tra cui la stessa azienda Albino Armani al fianco di Endrizzi, Foradori, Ferrari Trento e Sondelaite, piccola azienda “indigena” del Parco Naturale del Monte Baldo.
“Lo spostamento dei vigneti in altitudine per affrontare il cambiamento climatico - sottolinea Albino Armani - non può prescindere dalla ricerca di un nuovo equilibrio nella coesistenza tra popolazioni locali e viticoltura. Siamo in un territorio per definizione fragile, in cui entrare in punta di piedi chiedendo il permesso. Stanno arrivando aziende molto importanti che si sono accorte della grande qualità dei terreni e del clima, e credo che molte altre si avvicineranno in futuro a questo territorio che oggi è molto integro e ancora molto poco dedicato, in termini percentuali, alla viticoltura. Credo che bisognerà approcciare questa area con un paradigma e metodi diversi rispetto a quelli della viticoltura degli ultimi venti anni molto proiettata su se stessa e sull’incremento delle superfici. Ritengo che la viticoltura del futuro dovrà essere molto più aperta anche all’accettazione dei limiti che derivano dall’equilibrio territoriale in tutte le accezioni della sostenibilità che oggi in tante parti d’Italia, in tanti modelli, in tanti territori ormai è andato a dissolversi completamente. E qui sul Baldo trentino abbiamo la possibilità di mettere in atto la viticoltura di domani, che non può essere assolutamente quella agita fino ad oggi. Spero che qui riusciremo a costruire un modello di regole condivise con la popolazione locale che possa essere esportato anche in altri territori italiani. È necessario però alimentare questo momento di discussione sul territorio. Oggi i modelli vitivinicoli vivono di strutture e sovrastrutture molto autoreferenziali, come i Consorzi, che non dialogano dialetticamente con l’esterno del perimetro vitivinicolo. Chi è fuori da questo ambito non può sentirsene parte perché non viene minimamente coinvolto in queste istanze, in questa prospettiva di futuro. Credo che partire di qui, da questi luoghi con pochi ettari di viticoltura, possa creare un esempio virtuoso per altre aree che vedono in questa dialettica mancata un fattore di crisi che ancora non teniamo molto bene in conto”.
Quelle di Albino Armani sono affermazioni che assumono un peso particolarmente importante per il ruolo che ha avuto nella “composizione” della Doc delle Venezie Pinot Grigio di cui presiede il Consorzio e per le sue esperienze in diverse zone viticole, in cui si confronta con denominazioni molto importanti per numeri e ampiezza delle superfici come quella del Prosecco Doc. “Ci sono aree in cui la viticoltura dà redditi importanti - osserva Armani a questo proposito - ma si può fare anche qualcosa di diverso. Conosco abbastanza bene queste dinamiche e le utilizzo anche per attingere da esse un’idea di futuro nuovo molto più aperto, meno focalizzato solo al proprio interno e più disposto anche ad accettare la critica. Non possiamo pensare che i giovani si avvicinino al vino se non se ne sentono partecipi. Oggi mi piace pensare a strutture collegiali, collettive, innovative, accoglienti che sappiano anche accettare i fattori limitanti. La viticoltura non può continuare a espandersi. La Francia sta diminuendo la propria superficie, il consumo di vino sta regredendo più che aumentando: quale viticoltura possiamo aspettarci con i tavoli vetusti delle regole del passato? Ecco, costruiamo un modello nuovo”.
Un nuovo modello anche dal punto di vista tecnico, che includa nella vocazione alla viticoltura anche nuovi aspetti nella definizione di terroir. “Il concetto di terroir - ha illustrato Attilio Scienza - muta nel tempo e oggi deve prendere in considerazione tutti gli elementi che ruotano attorno al vigneto. Le zonazioni, che sono lo strumento per conoscerne gli elementi strutturali, come altitudine e suolo, così come concepite una volta vanno riviste includendo anche le piante che sono nell’ambiente circostante e i rapporti che intrattengono con la vite”. Una sorta di revisione, questa, che si estende nel caso della montagna anche ai parametri utilizzati per definire se un ambiente è adatto o meno alla coltivazione della vite, a partire dall’altitudine che è solo uno degli elementi che determinano il clima, in parte anche “ingannevole” rispetto al risultato enologico (un concetto che, il professore ha spiegato anche a WineNews, nel nostro ultimo video dedicato alla viticoltura di montagna, ndr). “L’altitudine - spiega Scienza - è un criterio molto semplice, quasi banale di giudicare il gradiente termico di un ambiente. Ogni 100 metri circa di altitudine si ha una diminuzione della temperatura di circa un grado centigrado, quindi salendo da 100 a 800 metri, le temperature medie annue saranno inferiori di 7-8 gradi. Ma la temperatura media, utilizzata per calcolare gli indici bioclimatici che danno indicazioni sull’adeguatezza di un ambiente alla coltura della vite, non è un parametro valido in montagna perché non tiene conto dell’ampiezza delle oscillazioni. In montagna la media deriva da temperature molto elevate di giorno e molto basse di notte che determinano salti termici enormi causati dall’“effetto dolina”, cioè dalla discesa di masse di aria fredda dalle parti più alte a valle. Il cambiamento climatico con l’innalzamento delle temperature diurne acuisce il fenomeno, e quindi per scegliere dove collocare il vigneto bisogna fare valutazioni del topoclima (ndr: il clima localizzato determinato dalla topografia) su scale ridotte anche di soli 100 metri, oggi cosa possibile grazie alle tecnologie disponibili”.
Tutti i produttori chiamati al tavolo per descrivere i loro progetti e le prospettive dell’Altopiano del Baldo, vogliono dedicarsi - e alcuni lo fanno già - alla produzione di uve base spumante di Pinot Nero e Chardonnay, ad eccezione di Elisabetta Foradori. La produttrice basata a Mezzolombardo, qui punta su vitigni minori, perché “non di solo Trentodoc bisogna vivere”, affermazione traslabile a tutti i territori che hanno come protagonista un solo vino per i quali sussiste il rischio degli effetti negativi di eventuali rapidi mutamenti di mercato. “La viticoltura dell’Altopiano del Baldo trentino ha particolarità qualitative che meriterebbero visibilità sull’etichetta o sulla retroetichetta, senza tuttavia pensare a sovrastrutture come Doc, Docg e Consorzi, non coerenti con le politiche vitivinicole del Trentino che non danno luce alle microrealtà particolari - conclude Albino Armani - anche smentendo alcune interpretazioni errate circolate e che potrebbero ingenerare polemiche. Sarebbe interessante che chi farà Trentodoc sull’Altopiano del Baldo cominciasse ad evidenziarlo utilizzando solo vini base da uve prodotte qui, evitando di fare blend, per esprimere un prodotto peculiare di questi luoghi”.

Clementina Palese

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