Solitamente l’indicatore del benessere in un determinato territorio è il Pil, il Prodotto interno lordo. Eppure c’è più di qualche economista, Serge Latouche in primis, che nell’esporre la sua teoria della “decrescita”, contesta questa metodologia di indagine giudicandola mistificatrice: se in un anno in un Paese ci sono tanti incidenti stradali per esempio, il Pil, per una serie di fattori, tende a crescere, ma morti e feriti non sono certo un elemento di benessere. Il Bhutan, un piccolo Stato montuoso dell’Asia, fonda il concetto di benessere sull’indicatore Fil, la Felicità interna lorda: il benessere del territorio è dato dalla felicità di chi lo abita e tiene conto di criteri come qualità dell’aria, salute dei cittadini, istruzione e ricchezza dei rapporti sociali. Ma nell’Italia dei migliaia di campanili gli indicatori possono essere dei più disparati: il turismo è un elemento positivo, ma sempre? Investitori esterni che puntano su un certo territorio, disperdendone tradizione e cultura, ma portando innovazione e ricchezza economica nelle tasche dei locali, sono un bene o un male? Una riflessione che WineNews ha affrontato, più volte e da tempo, incontrando lo stesso Latouche, confrontandosi con storici italiani come Massimo Montanari e Gianni Moriani, esperti nel mondo del vino, della ristorazione e dell’accoglienza, con le istituzioni e la politica, con i vignaioli e con una personalità come il gastronomo, fondatore Slow Food, Carlin Petrini, https://winenews.it/it/il-sistema-agricolo-e-alimentare-deve-cambiare-con-scelte-individuali-e-attraverso-il-piacere_478579/ tra i primi a sollevare la questione del rischio depauperamento dei territori del cibo e del vino italiani.
Prendiamo - e non è certo un caso- le Langhe, Patrimonio Unesco, dove si producono alcuni dei migliori vini al mondo e aumentano i visitatori, ma nei borghi limitrofi non c’è più un bar che fa un caffè perché nel frattempo si è trasformato in enoteca: è un fattore positivo o negativo? Dipende. “Solo attraverso il giusto equilibrio si potrà godere di un vero benessere”, ha scritto lo stesso Petrini, nato e cresciuto a Bra, in Piemonte, nelle colline intorno alle Langhe, che ha recentemente affrontato l’argomento, ma anche molti altri, anche sulle colonne dello storico quotidiano italiano di Torino e del Piemonte “La Stampa”. Una lunga riflessione, divisa in quattro reportage, perché, poi, si è allargata anche ad altri grandi protagonisti del territorio, soprattutto in campo vitivinicolo, come i produttori Roberta Ceretto, Marta Rinaldi e Angelo Gaja, che hanno a loro volta esposto i propri punti di vista, e che WineNews oggi rilegge perché rappresenta un “paradigma” per molti altri territori del vino italiano.
Il tutto nasce dal racconto, quasi biografico, di Petrini su uno dei territori più importanti d’Italia e del mondo in termini economici e sociali, le Langhe, e su come a volte il benessere che arriva in queste località (l’Italia è piena di piccole comunità, molte famose per il loro vino, ma i cui borghi rischiano lo spopolamento o peggio ancora la perdita d’identità) non sempre porti per forza anche degli squilibri. Fermo restando però un concetto fondamentale: la cultura e la tutela delle tradizioni. Non a caso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, fondata dal gastronomo nel 2004, negli ultimi due anni ha organizzato degli incontri rivolti ai giovani under 30 per ripercorrere le tappe fondamentali della storia recente delle Langhe e per “seminare” in loro, oltre la consapevolezza, anche la curiosità su cosa è avvenuto prima.
Per esempio che nel 1970 gli ettari vitati erano 5.000, oggi sono 10.000. Che un ettaro vitato di uve nebbiolo da Barolo prima costava 4-5 milioni di lire (2.582 euro, ndr) e oggi invece possono servire fino a 4 milioni di euro. Che per acquistare il Castello Falletti di Barolo, allora in disuso, il sindaco Battista Rinaldi organizzò una raccolta fondi da 33 milioni e mezzo di lire per ridare vita al maniero simbolo della cittadina, l’equivalente odierno di 345.000 euro, ovvero una manciata di filari. Storiografia che preoccupa Petrini per il futuro, che parla di Langhe a due volti e da salvare dal modello della crescita infinita, in quanto la comunità locale secondo lui oggi si trova molto impoverita, a fronte di un valore dei terreni dopato e speculazione sulle bottiglie, e il pericolo di attrarre così un mondo che “poco ha a che fare con l’origine agricola e l’artigianalità enologica: quello della finanza e dei grandi gruppi di investimento. L’eccessiva ricchezza privata riduce la prosperità pubblica”, scrive. Il gastronomo esorta quindi i giovani imprenditori vitivinicoli dell’areale (circa 200 km quadrati) di essere sì orgogliosi di questo privilegio, ma di tutelarne anche i limiti per preservare al meglio ciò che hanno ereditato. A partire dalla protezione della biodiversità: negli ultimi anni, dice Petrini, la logica del profitto ha portato molti produttori a far la scelta di abbandonare la coltura di uve che, come il Dolcetto, hanno un prezzo di mercato più basso e molti vigneti sono stati convertiti nel più profittevole Nebbiolo. Ma sul lungo periodo “non è mai stato vincente concentrare la coltivazione su poche specie, anzi, è stata proprio la diversità qui rappresentata a generare una ricchezza davvero fuori dal comune”.
Una tesi, quella del rifiuto alla monocoltura, sposata in pieno da Angelo Gaja, “artigiano” del vino italiano per eccellenza e uno dei produttori italiani più ammirati nel mondo, che sempre attraverso “La Stampa” ha dato il suo parere circa la riflessione di Petrini: “è un errore pretendere che Barolo e Barbaresco trainino l’intera produzione piemontese - ha commentato - come due cavalli da corsa questi vini sono i nostri due campioni. Ma danno il meglio se gareggiano negli ippodromi, perchè se devono trainare un grande carro con sopra vini, grappe, birre, carni, salumi, formaggi, frutta, pasticceria, ortaggi, nocciole, castagne, allora sono destinati a trasformarsi in cavalli da tiro con il rischio di snaturarli. Meglio non abusare”. E riguardo gli investitori “non-indigeni”, e la paura che possano essere invasori focalizzati solo sul profitto, Gaja cita il ceco Miroslav Lekes, proprietario di cantina e di un ristorante a Monforte “che produce ottimo cibo e vini eccellenti”, e Kyle Krause, arrivato dall’Ohio, negli Stati Uniti, nel 2016, per comprare la cantina Vietti e producendo, inoltre, con la cantina Serafino l’omonimo spumante. Investitori non langaroli, ma che hanno saputo prendere il meglio del territorio che li ha accolti senza snaturarlo e mantenendone cultura e tradizioni. La carta d’identità conta, dunque, ma anche chi arriva da fuori e investe non per forza crea squilibri al benessere di un territorio. Si può fare, dice Gaja, purché si abbia realmente a cuore la sorte di quel territorio, che è la tesi di Petrini. Come Banfi a Montalcino: fondata nel 1978 dalla visione dei fratelli italoamericani John e Harry Mariani, che sono riusciti, da esterni, a creare un colosso del vino, con importanti interventi sul territorio e la creazione di posti di lavoro.
Ma cosa succede se il benessere porta indifferenza? Perché “finché tutto va bene” il problema non si pone oggi, ma magari un domani quando quell’esplosione di ricchezza ha esaurito il proprio potenziale. Il vino per un piccolo territorio deve essere motore, non benzina da bruciare. E bisogna anche saper accogliere, sia come enoturismo che come cura del paesaggio e a maggior ragione nelle Langhe Patrimonio Unesco, primo territorio del vino riconosciuto dieci anni fa esatti, nel 2014. Anche perché, come molti studi di settore suggeriscono, il visitatore ama immergersi nelle esperienze e nella vita reale, non in “paesi-attrazioni” mordi e fuggi. “Abbiamo bisogno di istituzioni che agiscano con lungimiranza, di amministratori che abbiano voglia di pensare e non solo di contare”, sostiene nel suo intervento su “La Stampa” Marta Rinaldi, erede insieme alla sorella Carlotta della cantina Giuseppe Rinaldi, entrambe nipoti del sindaco (che ha il nome dell’azienda) ricordato da Petrini e delle quali conserva il ricordo di una “figura alta che intratteneva amici e parenti seduto sul balcone di casa, con il bastone in una mano e il calice di vino nell’altra”. Plaudito il fondatore di Slow Food per aver “alzato il velo sulle Langhe” torna centrale il tema della biodiversità: “dobbiamo avere il coraggio di dire basta alla concessione di nuovi terreni, salvaguardare quel poco di bosco e quelle varietà come la Barbera, il Dolcetto e la Freisa, che sono minacciate dalla fortuna del Nebbiolo”, dice. E fare squadra: “la perdita dell’interesse comune, dell’associazionismo e della vivacità culturale sono evidenti. Oggi c’è più divisione e individualismo, meno orgoglio collettivo e una maggiore attenzione alla crescita privata”.
A tal proposito Roberta Ceretto, terza generazione alla guida delle cantine Ceretto (insieme al fratello Federico ed ai cugini Alessandro e Lisa), ammette che le Langhe negli anni si sono trasformate e anche che ci sono storture da correggere. Non teme però “l’invasione degli speculatori” perché “qua cantine e vigneti sono ancora in mano alle famiglie storiche che tutelano la cultura e la tradizione del territorio”. La pagina dedicata alla sua riflessione su “La Stampa” si divide tra la condivisione di alcune tematiche sollevate da Petrini e altre più sulla difensiva. D’accordo sul fatto che se il territorio non è felice, allora anche il turismo diventa problema e non risorsa. Più piccata sul tema della ricchezza privata a danno del pubblico: “non siamo benefattori, ma nemmeno speculatori come vorrebbe far credere qualcuno - dice - se oggi in Langa si parlano tutte le lingue del mondo un po’ è anche merito nostro. Ci impegniamo a produrre sempre al meglio e a selezionare ciò che porta veramente valore. Anche a costo di produrre un po’ di meno”.
Per Christopher McCandless, il giovane viaggiatore statunitense che ha ispirato il film cult di Sean Penn, “Into the Wild”, “la felicità è reale solo se condivisa”. E così si trasforma in benessere. L’operazione nelle Langhe negli anni è senz’altro riuscita, ma Petrini, in questo caso quasi nelle vesti di maestro scolastico, ricorda di non adagiarsi sugli allori. La ricchezza non per forza squilibra un territorio, ma le sfide del futuro - così come per tanti altri piccoli ma grandi territori italiani, non solo del vino - sono all’orizzonte. Bisogna saperle affrontare, con memoria storica e perché no, anche con “la fantasia di ricreare nuove forme di socialità, più moderne e inclusive - dice il fondatore di Slow Food - solo così si potranno preservare anche quegli agi più materiali, che da soli non possono generare la felicità dell’essere umano”.
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