Puntare sugli accordi di libero scambio, sull’abbattimento delle barriere tariffarie e sull’Asia, che è il mercato a più alto potenziale. È questo il nodo cruciale su cui si fonda il futuro del vino italiano (ed europeo). Che cresce, ma grazie all’export, che però è troppo sbilanciato su alcuni mercati. Lo ha detto il presidente dell’Unione italiana vini Domenico Zonin ai rappresentanti delle istituzioni nazionali – nell’occasione il Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina – e soprattutto a quelli europei (Jean-Luc Demarty, direttore generale della Dg Trade della Commissione Europea e Jean Marie Barillère, direttore attività “Moët & Chandon Champagne, ma anche presidente del Ceev -Comité européen des entreprises vins) presenti alla tavola rotonda “Europa dei vini e commercio globale”, di scena ieri all’Expo di Milano.
“Il contesto europeo in cui ci muoviamo manifesta una crescita economica debole, quindi l’export deve concentrarsi sempre più verso gli Stati terzi. Ma dazi e burocrazia ci condannano. L’Europa non è ancora abbastanza forte nell’export. È evidente, quindi, che necessiti di una strategia commerciale forte, che focalizzi l’attenzione sugli accordi di libero scambio individuando alcuni Paesi come prioritari nelle trattative”.
L’analisi delle esportazioni del vino italiano parla chiaro: nei primi quindici mercati soltanto cinque sono extra-europei (Usa, Canada, Cina Giappone, Russia e Cina). I primi tre sono Stati Uniti, Germania e Regno Unito che da soli coprono il 58% dell’export in volume ed il 54% in valore, mentre c’è stata una forte crescita in Cina con un +12% in volume e un +20% in valore, pari a 14,5 milioni di euro. A tenere vivo il mercato sono gli sparkling: le esportazioni aumentano del 23% sia in volume che in valore, e i mercati più significativi sono sempre gli Stati Uniti e l’Inghilterra, che costituiscono il 70% del volume totale. Poi c’è il “tasto dolente” della Russia, che rappresenta, per il vino italiano, più di 100 milioni di euro di fatturato annuo, che ne fa il primo cliente “Bric” (davanti a Brasile, India, Cina) grazie, soprattutto, al successo delle bollicine. Su questo fronte il vino italiano, seppur salvato dall’embargo e dalle sanzioni che hanno colpito alcuni prodotti agricoli europei, ha perso comunque il 54% in volume e il 56% in valore sullo scorso anno.
“Il mercato europeo - ha detto Jean Marie Barillère, presidente del Ceev -Comité Européen des Entreprises Vins - è in costante calo. Il futuro passa dall’esportazione”. Per crescere, bisogna puntare fuori dall’Europa. Per l’Unione italiana vini c’è la necessità di aprire nuovi mercati al fine di diversificare il commercio, ancora troppo concentrato in pochi Paesi. Fondamentale è l’espansione in Asia, prima di altre aree: l’America Latina consuma poco vino, l’Africa ha un basso Prodotto interno lordo e l’Australia è un produttore di vino. In Asia, i tassi di crescita economica si accompagnano a quelli di aumento consumo pro-capite di vino (la Cina, con quasi 16 milioni di ettolitri annui rappresenta il quinto consumatore mondiale di vino).
Gli occhi sono puntati sugli undici accordi di libero scambio di interesse per il settore vino che la Commissione europea sta negoziando e che sono lo strumento più rapido per ottenere l’integrazione economica tra le varie aree commerciali e per abbattere le barriere tariffarie e non-tariffarie. Tra questi, il più importante è il cosiddetto Ttip con gli Stati Uniti e poi l’accordo con il Giappone, dove l’Italia esporta già per 1,4 miliardi di euro. “I negoziati non possono concludersi senza un accordo che elimini i dazi doganali, attenui le barriere non-tariffarie (additivi in Giappone) e tuteli le nostre IG”, sostiene l’Unione italiana vini. Per avere un’idea, il risparmio potenziale che si avrebbe con l’eliminazione dei dazi sarebbe di 500/600 milioni di euro con gli Stati Uniti e fino ad 1 miliardo con il Giappone per le grandi aziende.
Altro fronte asiatico sono i Paesi dell’Asean (Singapore, Tailandia, India, Malesia), con i negoziati sono da riprendere, e il Vietnam, dove si spera di chiudere l’accordo entro l’anno 2015. “I negoziati in corso con il Vietnam e il Giappone sono cruciali per il futuro del vino europeo”, sostiene Barillère. “Un’apertura dovrà essere dedicata anche a una nuova politica verso mercati come l’Africa, che dovrebbero rientrare in una logica di strategia unitaria”, ha detto Zonin. Per i Paesi emergenti africani, i due accordi esistenti (Economic Partnership Agreements con gli Stati dell’Africa dell’Est e la Economic Community con i Paesi dell’Africa occidentale) sono stati conclusi senza alcun miglioramento per l’accesso al mercato per i nostri vini e, pertanto, sembrano un’opportunità mancata. Per Zonin, la Commissione europea, dunque, deve rafforzare i legami economici anche con il continente africano dove, soprattutto in alcuni aree (Angola, Kenya, Mozambico Nigeria, Costa Avorio, Camerun) alcune aziende italiane iniziano ad affacciarsi e intravedere opportunità di crescita, seppur con barriere tariffarie estremamente elevate. Per Barillère, è fondamentale riuscire a ottenere regole di concorrenza chiare ed eque, ma anche diffondere la cultura del nostro sistema.
Il Governo italiano dovrebbe fare da sponda. “Nei prossimi mesi dobbiamo lavorare fortemente - ha detto il ministro delle Politiche Agricole, Maurizio Martina - sui mercati extraeuropei, anche in reazione agli effetti dell’embargo russo. Con il piano internazionalizzazione messo a punto con ministero dello Sviluppo economico abbiamo l’obiettivo di lavorare su piattaforme logistico distributive che supportino l’ingresso dei nostri prodotti nei mercati. Lavoriamo perché questa misura diventi europea, superando così ogni problema tecnico amministrativo. Serve un cambio di passo anche a livello regionale, perché mai come adesso non sprecare risorse è fondamentale. Già dalla prossima settimana incontrerò gli assessori delle Regioni anche per discutere questi aspetti”.
Fausta Chiesa
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