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Vini: Stefano Cordero di Montezemolo, cresce fatturato per export … Un fatturato in crescita, seppur modesta (+5% nel 2010 sul 2009), ma completamente dipendente dall’export; una riduzione della redditività ormai strutturale, e una necessità di maggiore efficienza distributiva e commerciale, che porterà ineluttabilmente ad una concentrazione, almeno nella fase di “post-produzione”. È lo stato attuale del vino italiano per Stefano Cordero di Montenzemolo, direttore accademico della European School of Economics, e docente di finanza strategica del Master per aziende vitivinicole dell’Università di Firenze, che a WineNews analizza lo studio pubblicato da Mediobanca. “I punti più importanti che emergono confermano una linea di tendenza che c’è da alcuni anni: a parte di un breve periodo che c’è stato tra il 2008 e il 2009 a cavallo di una recessione globale, che ha visto un rallentamento del fatturato, comunque complessivamente il settore ha dei tassi di crescita mediamente positivi, e tuttavia vede una sistematica riduzione dei margini operativi. La crescita del fatturato è sempre più legata alle esportazioni, perché la domanda interna si sta contraendo, sia in termini di quantità che di valori, e quindi sempre più il settore vinicolo italiano dipende dalla domanda internazionale”. Campo in cui va detto - aggiunge - “che il vino italiano ha performato molto bene in questi anni, anche se, dal mio punto di vista, ci sono dei problemi strutturali con cui queste aziende, soprattutto quelle maggiori, si devono confrontare, in primis quello di un maggiore controllo della distribuzione anche su mercati internazionali, visto che il modello è ancora, e lo dice la stessa ricerca di Mediobanca abbastanza tradizionale, cioè legata agli importatori e quindi senza una presenza diretta e un controllo di come poi il prodotto viene effettivamente collocato”. “Circa 2 o 3 anni indicai che, tenuto conto di quello che sono i tratti caratteristici delle imprese private italiane prevedevo, così come poi si va infatti materializzando, che la concentrazione sarebbe passata principalmente dalle società cooperative. E in effetti già qualcosa si è già realizzato con Cantine Riunite & Civ de, altri segnali stanno arrivando in questa direzione, anche se forse ci vorrà un pochino di tempo per metter d’accordo le basi sociali”, aggiunge il professor Montezemolo. “In ogni caso credo che si vada verso altre forme di integrazione sulle cooperative che per altro, secondo me, va vista come la soluzione immediatamente più percorribile per una concentrazione, ed è anche utile per certi versi alle società private familiari”. “Questo perché aziende - continua il professor Montezemolo - che vanno stabilmente oltre i 350, 400 milioni di euro di fatturato, posso essere da traino anche per le aziende familiari, anche se è vero che è molto difficile arrivare all’integrazione di vedute, perché ci sono storie familiari, storie personali, proprietà fondiarie molto consistenti che sono poi difficilmente sistemabili in processi di integrazione. E purtroppo anche alcune esperienze che ci sono state negli ultimi anni, di qualche tentativo di far entrare degli investitori finanziari, in alcuni casi non ha prodotto risultati particolarmente positivi. È difficile conciliare le esigenze familiari con quelle del capitale finanziario che vuole ritorni, vuole sbocchi anche in termini di quotazione o di possibile acquisizioni e quindi sviluppi esterni delle imprese. Questo è un vincolo, certamente, ma non solo italiano: riguarda tutta la cosiddetta Europa tradizionale, e cioè Italia, Francia e Spagna, è un tratto caratteristico dei grandi produttori storici che in prospettiva dovrà essere considerato”.

Dalla produzione al prodotto: che succederà domani? “Penso che la grande sfida del futuro il vino non sia più tanto la qualità del prodotto: un dato molto interessante che emerge dalla ricerca di Mediobanca è la crescita esponenziale del numero delle etichette, che ha creato molta confusione, molta cannibalizzazione fra i prodotti, e secondo me quando si aggrediscono i mercati internazionali, bisogna avere un’offerta molto chiara, molto precisa con segmentazioni dell’offerta molto molto ben definite. Bisogna avere un maggiore controllo di come il prodotto viene posizionato. Quindi è pensabile - conclude - che l’aggregazione possa andare su questa fase del processo industriale, cioè trovare delle forme di integrazione di imprese che creino delle società di distribuzione sui principali mercati internazionali, senza pensare di farlo sul livello produttivo, che è più complesso. Nella logistica, io la vedo nella fase dove i produttori devono pensare seriamente a creare proprio delle società che abbiano proprio una loro mission economica in due fasi fondamentali: una nella logistica per razionalizzare i costi, quindi ridurre i costi di trasporto, di magazzinaggio che sono molto grossi e magari anche qualche fase di assemblaggio e di rifinitura del prodotto; l’altra nella commercializzazione internazionale, quindi penserei seriamente a società che siano residenti nei principali mercati esteri. E soprattutto negli Stati Uniti, che rimangono il grande mercato: se pensiamo che gli Usa hanno un consumo medio di solo 9,5 pro capite, c’è ancora un margine potenziale di sviluppo enorme, che se gestito bene può dare degli ottimi risultati. Però per farlo bisogna essere più presenti e valorizzare di più la nostra produzione”.

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