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CHEESE 2007 - SLOW FOOD: “DURO LAVORO, SCARSA REMUNERAZIONE: COSI’ SCOMPARE L’ALPEGGIO UNA TRADIZIONE TIPICA DELLE NOSTRE MONTAGNE E TUTTA DA SALVARE”

L’alpeggio rappresenta il tratto più caratteristico e distintivo della zootecnia delle valli alpine. Il trasferimento del bestiame nei mesi estivi sui pascoli in alta quota ha interessato fino agli anni Sessanta la quasi totalità degli allevamenti, pratica poi via via abbandonata, in corrispondenza con il progressivo calo del numero di aziende e dell’evoluzione del settore. Una tendenza che sembra essersi rallentata negli ultimi anni, grazie anche agli interventi pubblici a sostegno del miglioramento delle infrastrutture delle malghe e alla riscoperta e valorizzazione dei prodotti caseari d’alpeggio.

I pastori che praticano l’alpeggio svolgono una lunga serie di attività utili all’ambiente, all’economia locale e alla società. Sono loro ad esempio che mantengono in vita razze autoctone che non si adattano a vivere in stalla perché necessitano di spazi aperti: la vacca Podolica, la Modicana, la Rendena, per esempio. Sono pastori che continuano a presidiare zone montane impervie o completamente spopolate, mantenendo i pascoli e la loro biodiversità, evitando l’inselvatichimento di queste aree, controllando l’espansione delle piante arbustive in primavera affinché non si verifichino incendi estivi facilitati da grandi quantità di erba secca. Essi inoltre continuano a produrre secondo metodi artigianali, utilizzando tecnologie tradizionali, salvandole dall’oblio culturale. Fanno un lavoro umile e in condizioni durissime. Eppure, queste fondamentali funzioni dell’alpeggio non vengono riconosciute e valorizzate né a livello sociale né economico. Il gap economico fra zootecnia alpina e di pianura è infatti notevole, ed è uno dei principali fattori di abbandono della pratica dell’alpeggio. Il rapporto 2006 dell’Osservatorio del Latte-Ismea lo indica con chiarezza: le ore di lavoro necessarie per produrre un litro di latte sono state determinate in 53 per la montagna e 10 per Pianura Padana: il reddito netto per ora di lavoro è calcolato rispettivamente in 2,19 e 11,58 euro. Questo a fronte di un mercato che remunera in maniera sostanzialmente uguale il latte prodotto negli allevamenti intensivi di pianura e quello di montagna e dei fondovalle alpini, con un valore rispettivamente di 37,94 euro/q per la montagna e 34,54 euro/q per la pianura.

In definitiva, in alpeggio si fatica di più e si guadagna uguale, senza che sia riconosciuta la miglior qualità del latte d’alta montagna.

L’abbandono del pascolamento delle superfici in quota è dunque un rischio sempre attuale, con ripercussioni decisamente negative per l’ambiente e l’economia montana, dato il conseguente degrado territoriale; inoltre verrebbe a mancare un prodotto dalle spiccate qualità organolettiche, non replicabili dall’industria zootecnica. Non va poi dimenticato il riflesso dell’attività agricola e casearia sulle economie locali, in particolare sull’offerta turistica e gastronomica.

Il pastore in Italia è ormai una figura che sta scomparendo: sono diminuiti del 90% negli ultimi 30 anni e del 50% negli ultimi 10 anni. Questo fenomeno ha molte cause, come ad esempio le condizioni di vita estremamente dure e la scarsa remunerazione, ma una delle principali è l’assenza di norme e regolamentazioni a tutela del mestiere.
Ci sono Comuni che addirittura hanno vietato il passaggio alle greggi e, dove ciò è consentito, i pastori hanno a che fare con norme a dir poco assurde, come l’obbligo di far richiesta ufficiale di passaggio almeno quindici giorni prima che questo effettivamente avvenga. Si tratta di una regola vessatoria, perché i pastori per ottemperarvi dovrebbero abbandonare il gregge per recarsi nei Comuni il cui territorio prevedono di attraversare, ma soprattutto perché non è facile avere certezza di quando si passerà in una determinata zona: problemi di maltempo, pascoli che si rivelano più o meno ricchi di foraggio e quindi richiedono tempi di stazionamento imprevedibili a priori.

Sulla situazione della pastorizia nel nostro Paese e delle potenzialità che avrebbe attraverso una valorizzazione del settore, illuminanti sono le parole di Roberto Rubino, direttore dell’Istituto sperimentale per la zootecnia di Bella (Pz): “in Italia vi è un’idea predominante secondo la quale i sistemi pastorali sarebbero la causa del sottosviluppo rurale. C’è chi ancora pensa che il pascolo degli animali sia la fonte principale del degrado delle terre e della povertà. Invece noi, studiando questi sistemi, abbiamo visto che è il contrario, cioè che le terre non si degradano, che gli animali rispettano l’ambiente ma soprattutto che la qualità dei formaggi, della carne, ed anche il benessere degli animali è tutt’altra cosa rispetto ai sistemi stabilati. Basta, in effetti, cambiare l’unità di misura. L’efficienza dei sistemi in stalla finora è stata misurata utilizzando la quantità, misurando cioè litri e chili prodotti. Se a questa analisi sostituiamo invece la qualità, nonché l’aroma e gli antiossidanti, cambia tutto: è un altro mondo. I sistemi pastorali producono ricchezza e qualità. Un po’ come per i vini. Se vuoi fare un grande vino, devi farlo in certe zone e in un certo modo. Se vuoi fare un grande formaggio, devi farlo alla maniera dei pastori e rispettare la tradizione.
Bisogna allora cambiare questa cultura: la vera qualità si trova nei sistemi al pascolo. Il resto è un prodotto banale, buono ma niente di eccezionale. I sistemi pastorali saranno la salvezza dei sistemi agrari nel mondo”.

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