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LA RIFLESSIONE

Climate change, il punto di non ritorno per uomo e agricoltura è sempre più vicino

Gli strumenti per reagire ci sono, ma il tempo stringe. Il messaggio di esperti e attivisti da Terra Madre Salone del Gusto 2024 by Slow Food

Il cambiamento climatico è una costante, nella storia del mondo. Ma quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni ha dei ritmi e delle velocità mai viste. E se l’umanità, e anche l’agricoltura - che dal clima dipende e che incide sul cambiamento climatico con il 30% delle emissioni di anidride carbonica globale - non sono ancora al “punto di non ritorno”, ci stiamo avvicinando a grandi passi a quei cambiamenti irreversibili che, secondo l’accordo di Parigi entrato in vigore il 4 novembre 2016 (e che ha come obiettivo le “emissioni zero” entro il 2050), se le temperature aumentassero di 2 gradi centigradi rispetto all’epoca preindustriale (e già oggi siamo ad un +1,3 gradi, ndr) stravolgerebbero il pianeta, con lo scioglimento delle calotte polari, l’innalzamento dei mari, la minor disponibilità di acqua dolce potabile, e con il cambiamento della circolazione globale oceanica. Eppure, oggi, i dati per capire i fenomeni e le tecnologie per cambiare rotta ci sono, e “basterebbe”, per usare un eufemismo, la volontà politica di farlo. Che però, in molti casi, si trasforma in parole che hanno conseguenze fattuali, e con la difficoltà di far convivere le necessità dell’economia di oggi con la necessità di cambiare per la vita di domani. E che sconta un problema di fondo, ovvero un approccio ai problemi guidato quasi sempre dalla sola visione dell’Occidente, mentre servirebbe un approccio realmente globale, anche perché, se alla lunga, ma neanche troppo, i rischi sono per tutti, nell’immediato sono i tanti popoli dei Paesi in via di sviluppo del mondo, dall’Africa all’Asia, ma anche le popolazioni indigene del Sudamerica e dell’Oceania, che vedono in pericolo il loro territorio, le loro tradizioni, e la loro sopravvivenza. Messaggio di sintesi, e poco confortante, che arriva da Terra Madre Salone del Gusto 2024 di Slow Food (26-30 settembre, a Torino), che ha visto confrontarsi Filippo Giorgi, esperto internazionale nel campo della modellistica del clima, dello studio dei cambiamenti climatici e dei loro impatti sulla società, e già membro dell’Ipcc, il Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici, che, nel 2007, ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace, Sara Segantin, scrittrice, reporter e Ambassador per l’European Climate Pact, Paola Favero, scrittrice, vincitrice “Bancarella Sport per la montagna” 2002, “Premio Marcolin” 2005, forestale, alpinista ed esperta di educazione ambientale, e Margarita Alejandrina Antonio Matamoros, indigena del popolo Miskitu, del Nicaragua, che fa parte del Fondo Internazionale delle donne indigene, moderati da Edoardo Vigna, responsabile dell’inserto “Pianeta 2030” del “Corriere della Sera”. Che, come buona notizia, ha sottolineato che, quanto meno, nelle nuove generazione, c’è un interesse forte e crescente nel discutere del cambiamento climatico e nell’affrontare la crisi. Che è conclamata, come raccontano i dati illustrati da Filippo Giorgi.
“Non siamo ancora ad un punto di non ritorno, ma le cose non vanno bene, lo abbiamo capito tutti. L’anidride carbonica aumenta a dismisura, le temperature globali, negli ultimi anni, sono in crescita in un modo mai visto negli ultimi 2000 anni, il livello del mare si innalza, perché si sciolgono i ghiacci, e perché l’acqua marina si scalda e si espande, seppur di poco. E gli eventi “catastrofali” di carattere metoclimatico crescono in modo esponenziale: da 200 del 1980 a 1.000 nel 2018. I cambiamenti di indicatore del riscaldamento globale stanno cambiando sempre più velocemente. Ondate di calore come quella straordinaria del 2003 sarebbero dovute accadere a distanze di secoli, ma in 20 anni, fino al 2023 ne abbiamo avute 6. E i rischi più gravi, con effetti irreversibili - spiega Filippo Giorgi - sono due: la fusione dei ghiacci della Groenlandia, che peraltro va ad un ritmo più veloce di quanto si pensava, e se avvenisse molte terre sarebbero sommerse; e l’interruzione della circolazione oceanica globale, che stravolgerebbe tutto. Non vuol dire che tutti moriremo, ma che avremmo condizioni stravolte, come se ci trovassimo a vivere in un altro pianeta. Se arriviamo all’aumento delle temperature di 2 gradi centigradi rispetto all’epoca preindustriale, e non ci siamo lontani, si innescherebbero questi fenomeni irreversibili che cambierebbero tutto. Ma non solo: se noi continuiamo a bruciare combustibili fossili come facciamo oggi, si potrebbe arrivare a 4-5 gradi di riscaldamento in più, e in un sistema complesso così è un salto nel buio, da evitare in tutti i modi. Non siamo ancora al punto di non ritorno, se stiamo sotto i 2 gradi: ci sarebbero conseguenze, ma gestibili, con politiche di adattamento sulla gestione dell’acqua, sull’agricoltura e così via, ma gestibili. Nell’accordo di Parigi 2015 si era detto che dopo il picco del 2020 delle emissioni si doveva arrivare a 0 nel 2050. Paradossalmente, il “lockdown” della pandemia da Covid ha dato una mano all’ambiente, quando eravamo tutti fermi, ma dal 2021 le emissioni sono continuate a risalire, e stanno peggiorando. Il problema è che se in Usa e Ue, che sono grandi emittori, la transizione ecologica è iniziata e le cose stanno migliorando, un po’ anche perché portiamo la produzione industriale altrove, ci sono aree del mondo come la Cina, l’India, e presto lo sarà anche l’Africa, in grande sviluppo, e quello di cui si discute è come i Paesi in via di sviluppo possano crescere, ma non come abbiamo fatto noi, con carbone e petrolio, ma con le tecnologie alternative che oggi pure ci sono. Un dato esemplifica tutto: negli anni Sessanta e Settanta, l’“Earth Overshoot Day”, cioè il giorno in cui si sono consumate più risorse di quelle che il pianeta Terra riesce rigenerare, non esisteva. Nel 2023 è stato il 28 luglio, e vuol dire che, come accaduto in anni passati, da quel giorno abbiamo depredato le scorte di risorse che dovrebbero servire alle prossime generazioni. Dobbiamo fare di tutto per spingere l’“overshoot day” indietro, ma le cose peggiorano”.
E quello che è peggio è che porre rimedio richiede tempo, e di tempo non ce n’è poi molto. E se a fare notizia sono sempre le catastrofi, le alluvioni ed i grandi incendi, il cambiamento è tangibile anche guardando le piccole cose giorno per giorno, come fa in montagna la forestale Paola Favero.
Secondo cui, per esempio, i boschi “sono sistemi ecologici complessi che hanno impiegato millenni per raggiungere un equilibrio, ora lo stanno perdendo. Io vado in montagna tutti i giorni, e non è più quella di un tempo, c’è tanto dissesto, piccole frane, canaloni sempre più scavati, rifugi che crollano per gli smottamenti, sentieri distrutti, ghiacciai che spariscono. Poi ci sono eventi estremi: la tempesta Vaia del 2018 è stata qualcosa di mai visto, in migliaia di anni. I boschi sono molto resilienti, assorbono i disturbi, ma se passano il limite tracollano velocemente. Oggi ci sono tempeste di vento fortissime, invasioni di insetti come non mai, in tutto il mondo non solo qui in Italia. E poi i grandi incendi, che negli ultimi due anni sono cresciuti anche in zone fredde come il Canada e la Siberia. E l’uomo, che continua ad andare a tagliare in maniera scriteriata”.
Problemi globali, dunque, che “non possiamo risolvere guardandoli solo con la visione eurocentrica o occidentale, servono lingue e linguaggi diversi per discuterne - ha detto dal canto suo Sara Segantin - persone che mettono a sistema le loro visioni e le loro soluzioni. Ho visto boschi in Africa devastati, dove al colonialismo economico si aggiunge quello culturale, ho visto le foreste in Sudamerica sventrate per fare allevamenti poter magiare più carne. I dati e gli strumenti per affrontare questi problemi e per cambiare le cose ci sono, manca la volontà politica. Se investissimo in venti anni di transizione ecologica quello che investiamo in nove mesi nelle guerre avremmo risolto i problemi. Isole, Paesi, culture, stanno sparendo, in pochi anni. Oggi chiudiamo muri a chi scappa dall’Africa, e non solo, ai “migranti climatici”, ma tra poco ci saremo anche noi italiani, e dove andremo allora? Serve parlare di giustizia climatica: diritti umani e questioni ambientali sono la stessa cosa. Siamo tutti nella stessa tempesta, non sulla stessa barca, c’è chi naviga su grandi navi e chi sulla zattera. Ed ovviamente il mondo del cibo e dell’agricoltura saranno tra i più colpiti”.

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