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INCHIESTA

Costi, lavoro, il mondo che cambia: l’alta ristorazione italiana cerca un modello sostenibile

Un settore in perdita costante, che deve ripensarsi ed aprirsi a forme di business nuove e che cerca investitori. Ma quanto pesa il carico fiscale ...
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La ristorazione di qualità in Italia

L’alta ristorazione, così com’è, e quindi ancora molto spesso ancorata ad un modello del passato, in cui i locali riuscivano a sostenersi, economicamente, solo con il proprio lavoro, non è destinata a durare a lungo. C’è bisogno di costruire strade nuove, affidandosi a partner solidi, capaci di sfruttare appieno il potenziale di quelli che, oggi, sono ormai diventati veri e propri brand, portatori di valore sia economico che culturale. I grandi chef, che da decenni hanno assunto un profilo ed una professionalità che li ha portati spesso lontani dai fuochi, con la loro cucina, sono diventati, a tutti gli effetti, delle piccole aziende. E come tali, si trovano di fronte problematiche strutturali enormi, ma anche possibilità.

Partiamo da un assunto, sempre più evidente e difficilmente opinabile: i locali di fine dining, in tantissimi casi, chiudono da anni i bilanci in perdita. E questo non per una qualche incapacità gestionale, quanto per una serie di fattori messi in fila, a WineNews, da uno dei più importanti e storici imprenditori del settore, che ci ha guidati nei meandri della ristorazione di alta qualità, e delle sue tante fragilità, cui dare risposte nuove per affrontare un mercato in rapido mutamento. Una vera e propria inchiesta, che muove dai costi, a partire, ovviamente, dal più rilevante: il lavoro, perché per garantire alti standard qualitativi, in cucina come in sala, c’è bisogno di una grande brigata, sia in termini numerici che di professionalità. Con un’incidenza importantissima sul fatturato del locale, dovuta principalmente al costo del lavoro, gravato da un cuneo fiscale che avrebbe urgente bisogno di un intervento da parte del Governo.

Lo Stato, del resto, è considerato da sempre una sorta di “socio di maggioranza”, perché il carico fiscale - in tutti i suoi infiniti rivoli, che insieme diventano un fiume - è considerato un altro grande problema, su cui intervenire. Era un’esigenza già prima della pandemia, ed è diventata un’emergenza dopo i due anni di limitazioni. Il 2020 ed il 2021, infatti, hanno più che dimezzato il giro d’affari della ristorazione, e tornare ad affrontare le stesse spese di prima, dopo uno stop ai mutui ed alle tasse durato solo qualche mese, per molti è stata una vera mazzata. E non è bastato il DL Aiuti, così come, nel 2022 e nel 2023, non si è rivelata una misura ben strutturata quella sugli aiuti destinati al caro bollette, incardinata sul credito d’imposta riconosciuto sulle spese pagate per l’energia, pari al 30%.

E ancora, i costi delle materie prime, che rappresentano un 30-35% delle spese, e che in alcuni casi hanno raggiunto livelli difficilmente giustificabili con l’inflazione o con gli stessi costi energetici. Un aspetto a volte sottostimato, ma che ne nasconde un altro: la mancanza sinergia ed equilibrio lungo la filiera, capace di valorizzare il lavoro degli agricoltori e degli allevatori, senza però ricarichi eccessivi (se non speculativi) ad ogni passaggio, che ricadono sulle spalle dei ristoratori. Prodotti, poi, da valorizzare anche in una cucina “semplice”, perché la qualità non è solo spettacolarità, come troppi giovani cuochi sono abituati a pensare, perdendo a volte l’occasione di crescere dentro a cucine storiche, che hanno costruito la tradizione gastronomica italiana.

Ingredienti e materie prime, così, diventano uno dei primi aspetti su cui intervenire, con menu costruiti anche sulla sostenibilità economica, ma soprattutto con una gestione delle prenotazioni e del lavoro che permetta alla cucina di minimizzare gli sprechi. Con un occhio alla cantina, dove troppo spesso i rincari sono esagerati, allontanando molti clienti dalla possibilità di stappare grandi bottiglie, come si faceva di norma fino a qualche anno fa. È vero che il potere d’acquisto della classe media è in calo costante, ed è altrettanto vero che dopo la pandemia molti territori hanno registrato un drastico calo del turismo internazionale, ma l’accessibilità - nei limiti del possibile - è ancora un valore a cui prestare attenzione.

Un altro fronte caldo, come è facile immaginare, è quello del lavoro, da cui deve muovere i primi passi la rivoluzione di cui l’alta ristorazione ha bisogno. Tenendo bene a mente che, oltre al costo, il lavoro vive un momento di cambiamento generazionale: i giovani - cuochi o camerieri - non hanno più alcuna intenzione di sacrificare sei giorni a settimana, dalla mattina alla sera, dentro ad un ristorante. Hanno voglia di godere diversamente del loro tempo, e anche questo diventa un fattore. Non è un caso, quindi, che molti ristoranti di alto livello decidano di lavorare solo quattro giorni a settimana, almeno in bassa stagione, garantendo almeno un mese o due di chiusura. In questo modo, si ottimizza il costo della forza lavoro, concentrandola in quei pochi servizi su cui è costruito l’intero fatturato del locale.

Non basta, ovviamente, a rilanciare un settore in difficoltà, e non esiste una ricetta univoca valida per tutti, specie perché l’alta ristorazione italiana è fatta di indirizzi storici di piccole città, se non di aperta campagna, come di tavole animatissime nei centri storici dei grandi centri urbani, dove il servizio del pranzo ha ancora un peso economico fondamentale e il numero dei coperti è spesso conteggiato in termini di decine. Esiste, però, una “formula”, declinabile in molti modi diversi: il grande ristorante, dove si fa cucina creativa e ricerca, con un servizio di altissimo livello, diventa la vetrina, dove curare il brand, intorno alla quale costruire una galassia di locali, in luoghi strategici, con cui fare cassa. Bistrot, locande, o qualsiasi tipo di format si possa immaginare, tavole in cui spendere 50 euro a persona, alla portata di tutti.

Non è un caso, né una novità, che le tavole più “floride” e solide, alla fine, siano quelle ospitate dai grandi hotel. Ossia da gruppi economicamente forti, che hanno il loro core business nell’accoglienza, capaci di razionalizzare le spese ed i costi di gestione, di poter investire cifre importanti, sia sul ristorante di bandiera sia, eventualmente, su progetti satellite costruiti intorno alla figura dello chef, che diventa consulente, lascia i fornelli e assume un ruolo diverso da quello del cuoco. Di esempi, in questo senso - anche sostenuti da investitori di altri settori economici - ce ne sono diversi anche in Italia, e rappresentano spesso i modelli economicamente più funzionali, anche perché gruppi del genere sono capaci anche di assorbire perdite talvolta ingenti.

Un’altra strada percorribile, intrapresa da diversi locali storici, è quella che affianca al ristorante l’attività di catering. Non un’opzione per tutti, perché ha bisogno di un’organizzazione del lavoro specifica, ma è comunque una possibilità che offre enormi opportunità. Senza dimenticare, infine, quei locali che, invece, hanno trovato la quadra in modo diverso, senza per questo rinunciare all’alta qualità, e quindi lavorando con piccoli numeri e pochi dipendenti. Una gestione ancora familiare, distante da certe dinamiche e certi ritmi, che riguarda ancora una fetta importante del fine dining italiano, specie nei piccoli centri.

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