Allineare il più possibile l’offerta alla domanda per evitare che l’eccesso di disponibilità di prodotto deprima i prezzi o che la scarsità introduca rischi di speculazioni. Questa la sfida per tutte le denominazioni, in particolare per quelle che, come il Prosecco Doc, fanno i conti con una crescita tumultuosa e che hanno bisogno di consolidare i mercati e far crescere i valori e stabilizzarli. Una sfida senza dubbio vinta dal Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne (Civc), il potente sindacato di vignaioli e produttori nato ormai quasi 80 anni fa, ottimo esempio per la denominazione veneto-friulana come è emerso nell’incontro, organizzato dal Consorzio del Prosecco Doc, a Treviso, nei giorni scorsi.
“Non è una casualità che Maxime Toubart (copresidente del Civc e presidente del Sindacato dei Vigneron, ndr) sia qui - ha esordito Stefano Zanette, presidente del Consorzio di tutela del Prosecco Doc - perché noi guardiamo con ammirazione a quello che lo Champagne ha fatto nei secoli, frutto di strategie che nel tempo si sono affinate. Noi al contrario abbiamo alle spalle una esistenza breve, 10 anni in questi giorni, che ci hanno visto avere risultati eccezionali di crescita a livello nazionale e internazionale, anche in modo inaspettato. I dati di fine anno, in crescita del 4,5% sul 2018 con 464 milioni di bottiglie, parlano di un incremento fino a 485 milioni di bottiglie. Le richieste di mercato sono vicine ai 500 milioni di bottiglie, tuttavia non dobbiamo affrontare la corsa ai numeri, ma il consolidamento dei mercati, facendo crescere qualità e il percepito del Prosecco Doc, e con essi il valore della bottiglia senza uscire dall’alveo in cui siamo. Abbiamo un mercato definito e non sovrapposto a quello dello Champagne e dei Metodo Classico. Ora dobbiamo distinguerci dai prodotti entry level non a denominazione. A fronte di una crescita del 244% delle bottiglie in 10 anni, il reddito dei produttori è aumentato: il prezzo delle uve al chilo è passato dai 55 centesimi del 2009 a 1,20-1,40 euro. Abbiamo avuto fortuna, ma abbiamo anche saputo assecondarla con tutti gli strumenti a nostra disposizione. Ora viene la parte più difficile: il confronto con il mercato”.
Governare i percorsi di crescita vuol dire conoscere i numeri che descrivono gli scenari. In questo caso quelli del Food Industry Monitor dell’Università di Pollenzo, basati su un campione che ha un valore aggregato 5,8 miliardi di euro, confrontabile con quello utilizzato nelle elaborazioni di MedioBanca.
“Nel confronto tra Prosecco Doc e vino nella sua totalità, Prosecco Doc compreso - ha illustrato Carmine Garzia del Dipartimento di Economia Aziendale della Supsi Scuola Universitaria Professionale della Svizzera italiana di Lugano - emerge come quest’ultimo presenti, fin dal 2009, una minor redditività, con un divario rispetto al vino che va aumentando, e al contrario un maggior rendimento sul capitale investito. Dal confronto “interno”, bollicine italiane versus Prosecco Doc, quest’ultimo risulta avere una maggior crescita media dei ricavi, redditività e rendimento inferiori. La produttività (valore della produzione/investimenti materiali) è, invece, decisamente superiore”.
Al di là delle differenze strutturali tra i due tipi di produzione è necessario capire perché la redditività del Prosecco Doc ha una serie di problematiche che è importante risolvere per tutto il settore vitivinicolo in relazione al prezzo medio all’esportazione.
“Si consideri - ha sottolineato Grazia - che gran parte della differenza nel valore medio di esportazione tra il vino francese (nel 2018: 6,69 euro/litro per 14,8 milioni di ettolitri) e quello italiano (nel 2018: 3,12 euro/litro per 19,9 milioni di ettolitri) è dovuto proprio all’elevato posizionamento di prezzo dello Champagne. La previsione di crescita dell’export delle bollicine italiane del 14,2% dal 2019 al 2021, a fronte di una progressione dei vini fermi del 2,16%, fa comprendere come un innalzamento del valore del Prosecco Doc, visti i numeri della produzione, possa incidere sul prezzo medio all’esportazione del vino italiano. Nel caso del Prosecco Doc la redditività in relazione al numero di bottiglie prodotte cresce meno rispetto a quanto si osserva per il vino in generale e le bollicine. Le dimensioni e gli investimenti in asset tangibili dunque non garantiscono una maggiore redditività. Non si tratta di un problema, ma di una opportunità, mettendo in campo una strategia di controllo dei prezzi e dei margini, che si voglia intervenire sulle quantità o investire nella valorizzazione del prodotto”.
Ma non si possono mettere in atto strategie di coordinamento della produzione e dell’offerta di una denominazione se il sistema non è trasparente. Condizione che difficilmente si verifica nel mondo vitivinicolo italiano e che, in sostanza, è alla base dell’azione del Comité interprofesionnel di vin de Champagne.
“Per una crescita profittevole - ha spiegato Edoardo Mollona dell’Università di Bologna - le aziende devono sapere cosa fanno i concorrenti, cosa tanto più difficile quanto più elevato è il numero di imprese del settore. Le asimmetrie nelle strutture di costo, per esempio presenza di piccoli privati e grandi cooperative, rendono difficile l’allineamento dei prezzi e facilitano i comportamenti opportunistici, quali la riduzione di prezzo per sottrarre quote ai concorrenti. L’elasticità della domanda e l’incertezza sugli scenari futuri premiano le politiche aggressive nel breve periodo. Complessità delle negoziazioni private, politiche di sconto e dei costi di spedizione rendono meno confrontabili i prezzi. Il coordinamento della produzione e dell’offerta viene facilitato dalla presenza di un osservatorio della domanda per stimarla in continuo, anche per anticipare choc di sistema, come ampliamenti della capacità produttiva o riduzioni della domanda. Infine è fondamentale il monitoraggio delle code di ordini nella supply-chain per ridurre i ritardi che nella filiera di produzione”.
Quest’ultima “avvertenza” non sembri relativa solo all’industria, perché calza a pennello al settore delle bollicine, in cui è riferibile alla filiera che va dal vino al prodotto finito passando per la rifermentazione, come è emerso dalla relazione di Maxime Toubart, che ha illustrato gli strumenti adottati per proteggere la filiera dello Champagne e i suoi numeri: 300 milioni di bottiglie all’anno per 4,9 miliardi di euro, pari al 10% in volume dei consumi mondiali di vini sparkling e al 36% in valore.
“La nostra strategia è in continuo aggiustamento - ha detto Toubart - e si basa sull’equilibrio tra tutti i componenti della filiera rappresentati nel Civc. Da trent’anni i volumi crescono e siamo arrivati quasi al massimo, pari a 330 milioni di bottiglie, che raggiungeremo lentamente, puntando soprattutto sull’aumento del valore. Abbiamo lavorato molto sulla qualità, senza la quale non si può ottenere un buon prezzo, e sulla “desiderabilità”. Siamo stati i primi a ridurre l’impronta carbonica e continueremo sulla strada della sostenibilità per migliorare l’ambiente. Il Civc gestisce la filiera completamente per garantirne l’equilibrio economico tra produttori e maison de Champagne, mettendola al riparo da oscillazioni dovute ad annate irregolari e tempistiche anche lunghe di affinamento. Lo facciamo come una “organizzazione sovietica”. Noi scherziamo su questo, ma controlliamo ogni dettaglio dalla coltivazione al mercato con diversi strumenti: la definizione della produzione per ogni annata e della “riserva interprofessionale”, la gestione di tutti i dati. La filiera (ndr: 33,843 ettari; 16.000 viticoltori, 340 maison de Champagne; 4.700 spedizionieri, 1.800 esportatori) è completamente tracciata dall’identificazione dei viticoltori al follow-up della produzione e delle vendite. Supervisioniamo tutti i contratti tra i viticoltori, che detengono il 90% dei vigneti, e le maison, che vendono il 70% dei volumi grazie a un quadro giuridico in deroga al principio del libero scambio. Valutiamo attentamente il numero di bottiglie sul mercato per non correre il rischio di una diminuzione del prezzo o, al contrario, di speculazioni per la mancanza di prodotto. Produttori e venditori servono entrambi alla filiera che per continuare a lavorare bene deve essere equilibrata. Il prezzo riconosciuto alle uve è di 6-7 euro al chilo, visto che le maison vendono care le bottiglie. La “riserva interprofessionale” è uno strumento molto importante che ci permette di fare fronte alla sfida importante del cambiamento climatico, alle variazioni produttive significative tra un’annata e un’altra e anche agli errori di valutazione, e quindi di evitare le oscillazioni di mercato. A volumi costanti corrisponde stabilità. La riserva varia di anno in anno, ma si aggira intorno ai 200 milioni di bottiglie equivalenti. Inoltre abbiamo scorte per la vendita, che aumentano e diminuiscono in base alla situazione, che puntiamo a portare a 1 miliardo di bottiglie. È più facile gestire la penuria che la sovrapproduzione in cui si può essere tentati di abbassare i prezzi per vendere. In certe annate abbiamo lasciato a terra anche il 50% della produzione: non possiamo compromettere la qualità se vogliamo preservare il valore”.
In Champagne, è importante ricordarlo, non si può produrre altro che Champagne. Non esiste cioè altra possibilità di vinificare le uve di quei vigneti. Diversamente che in Italia, non ci sono Doc di ricaduta e Indicazioni Geografiche che possono dare luogo anche a produzioni “concorrenti”.
“La straordinaria regolamentazione dello Champagne - ha esordito Michele Fino dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo - è operata da una organizzazione interprofessionale a cui, rappresentando tutta la filiera e gli interessi di tutti, per legge spetta il controllo della produzione, compito che i nostri Consorzi non hanno. La via italiana è stata quella di diluire la responsabilità del controllo che sono dell’interprofessione introducendo meccanismi politici: è la Regione che accoglie le proposte dei Consorzi, sentite le organizzazioni dei produttori. Le decisioni vengono prese non direttamente dalla parte che rischia sul mercato in una sorta di disallineamento tra responsabilità e conseguenze. Poi ci sono questioni che riguardano la governance dei Consorzi, come l’equilibrio delle diverse componenti, che è già nella legislazione, e lo stimolo alla partecipazione che deve essere costituita da una limitazione dell’egemonia esercitabile dai soggetti di maggiori dimensioni. In Champagne l’equilibrio tra le maison che hanno l’egemonia sul mercato per quantità e i vigneron è garantito dalla presenza di due copresidenti. Non c’è corrispondenza tra quantità prodotte e potere decisionale, si ragiona su consensualità e assunzione di responsabilità dei diversi componenti della filiera per tutelare e stabilizzare il mercato. D’altra parte con remunerazioni delle uve e prezzi delle bottiglie elevati c’è soddisfazione, contrariamente a quanto accade in molte Doc in Italia. In questi contesti si determina una concorrenza interna sul prezzo. Inoltre le aziende che spuntano prezzi più alti difficilmente accettano di ridurre la produzione e anzi mettono a frutto la loro buona reputazione per aumentare il ritorno economico. Saltano così gli equilibri, si apre la forbice dei prezzi e la “testa qualitativa” delle Doc si scolla dal resto. Come fare ad evitare questo meccanismo perverso? Bisogna studiare forme di soddisfazione individuale che non minino la capacità imprenditoriale del singolo, ma gli permettano ad esempio di sbloccare gradualmente in misura limitata la riserva a fronte di documentazione che provi che non si tratti di comportamenti competitivi. Ciò aiuterebbe gradualmente la crescita del valore delle Doc e al contempo la singola azienda. Questi sono gli strumenti giuridici creativi a cui possiamo pensare per l’adattamento a situazioni contingenti o peculiari. Il Testo Unico del 2016 ci permette di farlo”.
“Quello che distingue la realtà dello Champagne - ha concluso Zanette - è un grande senso di responsabilità e di appartenenza. Anche noi in passato abbiamo proposto regole ispirate agli stessi criteri, in particolare sulla comunicazione dei flussi di vendite, ma forse i tempi erano prematuri per comprenderle ed accoglierle. Credo che dobbiamo imparare non tanto a formulare norme precise e impegnative quanto, piuttosto, a sviluppare un sentimento di devozione nei confronti di una Denominazione che ci ha portati così in alto”.
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