“Gli Usa sono il primo mercato del vino italiano (1,8 miliardi di euro l’export nel 2022, ndr), ma non sono così semplici come sembra. Anzi. Si parla di 50 Stati con regole diverse, con sistemi di accesso diversi e molto complessi da affrontare”. Fotografia che è estrema sintesi degli Usa del vino, secondo Lamberto Frescobaldi, presidente di Unione Italiana Vini - Uiv e al vertice del Gruppo Frescobaldi, tra i più importanti del vino italiano, nell’incontro di scena a “Vinitaly 2023”, che ha visto alcuni protagonisti del vino italiano come Filippo Polegato (Astoria Wines), Gaetano Marzotto (Santa Margherita), Massimo Romani (Argea) e Massimo Tuzzi (Terra Moretti), tra gli altri, “intervistare”, il presidente degli importatori wine & beverage Usa della Nabi-National Association of Beverage Importers, Robert Tobiassen. Che ha analizzato un mercato che per il vino italiano è cambiato profondamente in pochi anni: nel 2010, in volume, l’esportazione di vini italiani verso gli Stati Uniti, secondo i dati dell’Osservatorio del Vino di Unione Italiana Vini-Uiv, Vinitaly e Ismea su dati Istat, era fatta al 49% da vini bianchi, al 42% da rossi e solo al 9% dalle bollicine. Nel 2022, il mix, invece, ha visto primeggiare ancora i bianchi, ma solo con il 36% del totale, con gli spumanti ormai al 34%, ed i rossi al 28%, mentre i rosati sono passati dall’1% al 2%. E con le vendite molto polarizzate, l’8% diviso a metà tra Chianti e Lambrusco, ed il 42,2% dagli altri. Sullo sfondo, ci sono le nuove generazioni, soprattutto la “Gen Z”, che consuma vino, ma rappresenta solo il 4% dei “regular wine drinkers”, che per il 47% sono ancora i “Boomers”. E questo, ha spiegato Tobiassen, anche “perché c’è da parte dei giovani una sempre maggiore attenzione alla salute”. Tra i trend che si vedono sul mercato c’è la grande crescita del Dtc, il direct-to-consumer, che avvantaggia consumatori e aziende, visto che il valore aggiunto non si disperde nei vari passaggi della distribuzione, e che però, è appannaggio quasi esclusivo dei vini americani, che rappresentano comunque oltre il 70% del mercato. “Ed è una situazione che difficilmente cambierà. Potrebbe succedere da un punto di vista normativo, per esempio, se il Governo federale o i singoli Stati lo consentissero, ma poi gli importatori che si vedrebbero “scavalcati” in qualche modo non sarebbero probabilmente troppo felici”. E se anche oggi “visto il successo del vino italiano non credo che la concentrazione in atto di importatori e distributori sia un gran problema”, ha detto Tobiassen, un importatore scontento, visto che con il celeberrimo “3 Tier System” che prevede la trafila importatore, distributore e retailer, è il primo filtro di accesso al mercato, non sarebbe un buon viatico. Un mercato che, a dispetto della forza delle denominazioni del Belpaese, vede ancora prevalere il “varietale” nella celta del vino.
Tanto che, ha detto ancora Tobiassen, in maniera molto pragmatica, “il vino italiano negli Usa non deve indugiare su dettagli del prodotto o delle denominazioni, ma parlare ai consumatori in modo più diretto, empatico: deve saper anticipare l’experience. Ed è importante non solo utilizzare un linguaggio immediato, ma anche trovare i giusti canali di dialogo con il grande pubblico; penso al Super Bowl o alle partite di basket per i nuovi formati. Nel presentarsi al pubblico americano il produttore italiano deve soprattutto saper identificare il valore aggiunto del suo prodotto in termini di piacere e gusto: qual è l’enhancement, l’arricchimento che il calice del suo vino dà all’esperienza”. Un approccio più sensuale che culturale, quindi, che va oltre la profilazione dei consumatori e lo sviluppo di un’awareness sull’offerta italiana.
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