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ATTUALITÀ

Il cibo italiano è una garanzia in quanto a sicurezza, ma alcuni alimenti sono bloccati all’estero

Coldiretti: oltre 8 prodotti su 10 pericolosi (86%) provengono da Paesi stranieri, ma il nostro export viene spesso colpito da blocchi e restrizioni

Risparmiare nella spesa alimentare, specialmente in un periodo dove il potere di acquisto si fa più limitato, è una prassi che accomuna tante persone. Ma se cercare il prezzo conveniente è normale, questo non significa di evitare di fare attenzione a quello che scegliamo. Qualche esempio è arrivato dall’analisi Coldiretti, sulla base delle elaborazioni del sistema di allerta Rapido (Rassf), diffusa a Roma nel Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione. Una “black list” che va “dai fichi turchi ai pistacchi iraniani contaminati dalle aflatossine, dalle spezie indiane ai litchi cinesi con livelli di pesticidi oltre il limite”, elenco “dei cibi più pericolosi che rischiano di finire nel carrello degli italiani alla ricerca del risparmio a tavola”. In Italia, sottolinea la Coldiretti, oltre 8 prodotti su 10 pericolosi per la sicurezza alimentare provengono dall’estero (86%). Sul totale dei 317 allarmi rilevati nel 2022, “106 scaturivano da importazioni da altri Stati dell’Unione Europea (33%) e 167 da Paesi extracomunitari (53%) e solo 44 (14%) hanno riguardato prodotti con origine nazionale.
I pericoli maggiori per la salute dei consumatori italiani, secondo Coldiretti, sono venuti dai fichi secchi della Turchia per le aflatossine, seguito dal pesce spagnolo, per l’alto contenuto di mercurio, dalla carne di pollo polacca contaminata da salmonella e poi da cozze e vongole spagnole sempre con salmonella insieme al batterio dell’escherichia coli. Molto pericolosi anche i pistacchi da Turchia, Iran e anche Stati Uniti per l’elevato contenuto di aflatossine cancerogene nonché le erbe e le spezie dall’India e i litchi dalla Cina per la presenza di pesticidi oltre i limiti consentiti, ma non mancano neppure le ostriche francesi al norovirus che provoca violente gastroenteriti. Un’emergenza quindi che non riguarda solo i Paesi in via di sviluppo ma che, per effetto della globalizzazione degli scambi e della competizione al ribasso sui prezzi, si estende anche a quelli più ricchi.
Puntare sul made in Italy, dunque, è una scelta che guarda anche alla sicurezza. D’altronde, sottolinea Coldiretti, “in caso di allarme alimentare le maggiori preoccupazioni sono proprio determinate dalla difficoltà di rintracciare rapidamente i prodotti a rischio per toglierli dal commercio generando un calo di fiducia che provoca il taglio generalizzato dei consumi e che spesso ha messo in difficoltà ingiustamente interi comparti economici, con la perdita di posti di lavoro. Per questo occorre anche avanzare nel percorso per la trasparenza sull’obbligo di indicare la provenienza degli alimenti in etichetta”.
Una battaglia portata avanti dalla stessa Coldiretti che ricorda come a partire dal 2025 scatterà l’obbligo del Paese di origine in etichetta anche per la frutta e verdura in busta, noci, mandorle, nocciole ed altri frutti sgusciati, agrumi e fichi secchi, uva secca, funghi non coltivati e zafferano. Un percorso ancora lungo visto che “la provenienza resta sconosciuta in diversi casi, dai succhi di frutta alle marmellate, dai legumi in scatola al pane fino ai biscotti, senza dimenticare l’esigenza di arrivare anche nei ristoranti ad indicare la provenienza della carne e del pesce serviti a tavola”. Per il presidente Coldiretti, Ettore Prandini”, “è necessario che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute”.
Ma c’è anche una “tegola” che si abbatte sull’agroalimentare italiano con i porti che restano chiusi per alcuni prodotti: “le esportazioni nazionali sono colpite spesso - sottolinea la Coldiretti - da blocchi e misure restrittive giustificati ufficialmente dal rischio della diffusione di malattie e parassiti delle piante ma che non trovano spesso riscontro nella realtà e coprono invece politiche protezionistiche. Una vera e propria guerra commerciale sommersa che nasconde spesso la volontà di difendere degli interessi locali per aggirare anche accordi internazionali sul libero scambio”.
Coldiretti cita molti casi, come il pomodoro ciliegino bloccato in Canada ma c’è “vita dura anche per i kiwi con l’Italia che è il secondo produttore mondiale ma non può esportarli in Giappone e Thailandia, le mele tricolori sono rifiutate dal Cile, il Perù, il Messico e la Cina. Con Pechino si è appena conclusa positivamente la trattativa per le pere, sulle quali si discute anche con la Thailandia. Il paradosso è che proprio la Cina frappone ostacoli per motivi fitosanitari e chiede assicurazioni sulla assenza di patogeni della frutta (insetti o malattie) non presenti sul proprio territorio con estenuanti negoziati e dossier che durano anni e che affrontano un prodotto alla volta, ma può esportare in Italia i propri prodotti assieme ai quali sono arrivati anche pericolosi insetti alieni dannosi come la cimice asiatica (Halyomorpha halys)”. Coldiretti parla di “un’anomalia che si registra anche nel caso degli agrumi. Il Sudafrica esporta da noi arance contaminate dalla “macchia nera” (black-spot), una malattia altamente contagiosa che provoca una diminuzione della qualità e della quantità dei frutti che non possono più essere venduti sul mercato fresco. I sudafricani, peraltro, impediscono anche le importazioni di uva italiana da tavola, così come la Thailandia. Frontiere off limits per gli agrumi tricolori anche in Cina (tranne arance) e Corea del Sud”. Gli Stati Uniti amano i prodotti italiani, ma “vietano l’ingresso dei carciofi freschi ma anche del limone caviale, una varietà di limone che si coltiva in Sicilia per effetto della tropicalizzazione del clima. Il Messico, invece, impedisce l’arrivo delle fragole e delle barbatelle per la vite e in Brasile non sono autorizzate le susine provenienti dall’Italia nonostante l’Unione Europea abbia siglato l’accordo di libero scambio con tutta l’area Mercosur di cui fanno parte Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. Ma difficoltà ci sono anche per altri prodotti come la carne bovina nazionale che è bloccata in Colombia, Perù e Corea del Sud a causa del rischio Bse”. Restando alla carne, quella di maiale “non trova spazio in Cina, Colombia, Corea del Sud, Indonesia, Messico, Sud Africa a causa del mancato riconoscimento del principio di regionalizzazione per la peste suina africana, mentre per la medesima ragione quella di pollo è bloccata da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Malesia a causa delle restrizioni dovute all’influenza aviaria. Ma l’export resta, comunque, difficoltoso a causa della burocrazia anche in Cina, Thailandia e Vietnam”. Il presidente Coldiretti Ettore Prandini sostiene che “a livello nazionale serve un task-force che permetta di rimuovere con maggiore velocità le barriere non tariffarie che troppo spesso bloccano le nostre esportazioni”.

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