Il giornalismo del vino ha radici antiche, la sua origine va ricercata negli albori della letteratura e della saggistica, ai tempi dell’Antica Grecia e dell’Impero Romano, quando i più gradi studiosi e filosi dell’epoca, da Omero ad Aristotele, da Catone a Platone, si interessarono all’uva ed al vino, come prodotto agricolo ma anche come tema filosofico. La letteratura enoica moderna, invece, possiamo farla risalire al XIX secolo, quando le prime pubblicazioni scientifiche di una certa rilevanza dedicate al mondo della viticoltura, videro la luce, tra cui “A History and Description of Modern Wines” del giornalista britannico Cyrus Redding, del 1833. Ma il vero boom del giornalismo del vino arriva nel XX secolo, quando all’attenzione del pubblico si impone un’élite di intellettuali che firma vere e proprie pietre miliari di storia e cultura del vino, come Hugh Johnson, Jancis Robinson e Robert Parker.
E oggi? Oggi tutto cambia molto in fretta, ed il ruolo classico del wine critic è, se non messo in dubbio, quanto meno ridefinito, come spiega bene proprio Jancis Robinson in un suo editoriale di qualche tempo fa, citato, dalla conferenza “Wine Journalism in digital times (wine critics 4.0)”, alla Vinexpo di Bordeaux, dal neo presidente della Fijev - Federation Internationale des Journalistes et Ecrivains des Vins, Wolfgang Junglas: “sono passata da un momento in cui ero l’unica fornitrice di informazioni, a dover combattere per ricevere attenzione. E se il passaparola è il più potente strumento di marketing al mondo, ed il suo potere è oggi amplificato dai social media, qual è il ruolo di chi, come noi, ha costruito la sua carriera consigliando i consumatori con la nostra esperienza, in questo nuovo, e molto più popolato, panorama di opinioni”. Risponde, da lontano, il blogger britannico Jamie Goode, ricordando che “il lavoro dei critici del vino è importante, perché certe opinioni contano più di altre, ed è assolutamente comprensibile dire alla gente che il loro palato debba essere la loro guida, solo che non è il caso di credere che se un vino è buono per te, allora è un grande vino”.
Insomma, della critica enoica di un certo livello c’è ancora un grande bisogno, ma il passaggio dalla carta stampata al digitale porta con sé qualche criticità, messe in fila da uno dei più grandi esperti e scrittori di vino di Gran Bretagna, Robert Joseph. Prima di tutto, la velocità, perché le recensioni sono diventate istantanee, mentre pubblicazioni e guide mantengono tutt’altra cadenza; quindi la democratizzazione: una volta bisognava essere abbastanza bravi da convincere un editore a puntare su di te, oggi i canali si sono moltiplicati, e chiunque ha lo spazio per dire la sua; e ancora, la discussione: oggi chi legge di vino vuole avere il piacere del contraddittorio; preoccupano anche gli standard degli scritti, di livello sempre più basso, inaccurati ed auto celebrativi: qualche anno fa non avrebbero mai visto la luce; cambia anche l’etica, perché se prima sponsor e amicizie con altri giornalisti avevano un certo peso, ed una certa evidenza, oggi è tutto più sottotraccia, ma ancora più influente; ci sono inoltre limiti alla comunicazione stessa ed alla sua fluidità: il digitale crea bolle in cui chi ama certe nicchie, penso ai vini naturali, parla solo con chi condivide la stessa passione; i sommelier sono un altro problema, perché ognuno di loro ha un blog o un posto in cui scrivere, che usa principalmente per farsi pubblicità e rendersi appetibile sul mercato del lavoro; un altro effetto si vede nella comunicazione al consumatore, che le aziende credono ormai di poter fare da soli, senza passare per i wine writer; c’è poi l’aspetto analitico, perché se prima era difficile quantificare l’influenza di un giornalista, oggi è possibile sapere quante persone hanno letto un articolo e quanti acquistano un vino dopo averlo letto; infine, la globalizzazione, per cui il consumatore può essere influenzato da ciò che viene scritto dall’altra parte del mondo.
Ma cosa ne pensano i protagonisti di oggi di questo dualismo destinato a resistere e a mutare i rapporti di forza? Per Bernard Burtschy, presidente Associazione della Stampa del Vino, “oggi ci sono wine critics e wine journalist, e la differenza è enorme, perché chiunque può fare il giornalista del vino. Credo che la carta stampata sia alla frutta, la qualità dei contenuti si è abbassata, sia per quanto riguarda i quotidiani che i magazine. In Francia i giornalisti del vino pubblicano più online che sul cartaceo, in Cina ci sono siti letti da milioni di persone e neanche un magazine importante sul vino. Il problema è monetizzare l’attenzione online, ma era problematico farlo anche 30 anni fa sui magazine. Il mio lettore - sottolinea Bernard Burtschy - è il consumatore, non il produttore, per cui il ruolo del giornalista del vino è quello di raccontare storie e giudicare. Un like su un social, in questo senso, non è un buon indicatore: ci vuole prudenza, si possono avere pessime informazioni. Su Vivino si trovano tanti vini che neanche esistono. E non è un problema di quantità, ma di qualità del giudizio, io se devo comprare un vino che non conosco, mi affido a un grande degustatore: è come per i film, bisogna trovare il degustatore con cui trovare affinità, empatia, non necessariamente essere d’accordo. Abbiamo bisogno di belle storie - ricorda Bernard Burtschy - ma il problema è la scelta del vino: se ho una grande storia ed un pessimo vino, è tempo perso. Le storie vanno sapute trovare, poi bisogna verificarle e metterle insieme, non basta stare davanti ad un computer e cercare su internet. Agli appassionati dico, partite dai vini meno cari, confrontateli tra loro, non arrendetevi alle apparenze né ai primi assaggi. In futuro, credo che il mezzo più importante saranno i video, ma è tra il 10% di chi continuerà ad informarsi sui media tradizionali, offline o online, che sta la maggioranza dei wine lover”.
Più conservatrice la visione di Felicity Carter, editor in chief di Meininger, che difende la carta stampata, il suo ruolo ed i suoi punti di forza. “Se non si fa una rivoluzione partendo da una posizione di potere, si rischia il fallimento: Robert Parker, con il digitale, è diventato ancora più potente, un vero e proprio brand, ma era comunque Robert Parker. Per i magazine cartacei è una questione innanzitutto di prestigio, lasciare la carta sarebbe un fallimento. Il giornalista del vino, per me, è colui che fa scoprire alla gente cose nuove, con competenza: sono molto critica con i giovanissimi che ricoprono ruoli importanti e guidano le mode o giudicano i grandi vini, influendo sul loro prezzo, ci vuole la conoscenza del contesto, della storia del vino, e si acquisisce in anni di lavoro. Il problema del digitale - continua Felicity Carter - è che crea delle vere e proprie bolle: ciò di cui si parla molto non è ciò che si beve realmente, basti pensare ai vini naturali, su cui si registra grande attenzione, ma rappresentano appena il 2% dei consumi mondiali. È interessante come online nuove firme e nuove figure raggiungano una certa credibilità in pochissimo tempo. Tutti vogliono criticare il lavoro del wine writer, ma è una categoria di giornalisti che ha creato un vero e proprio linguaggio condiviso. In questo senso, non consiglierei mai ad un giovane di diventare un critico di vino! Al di là degli scherzi, la cosa più importante è avere una propria opinione e difenderla con forza. La domanda per il futuro è: dove cercheranno informazioni in futuro i consumatori? Credo che ci saranno sempre più voci che parleranno, con consapevolezza, di vino, su sempre più canali, specie video e podcast, che la gente ama particolarmente”.
Peculiare il ruolo di Amy Gross, che ha fondato VineSleuth per aiutare i consumatori in maniera “oggettiva”, consigliando il vino giusto solo attraverso l’analisi ed il profilo organolettico del vino. “Noi non facciamo giornalismo enoico, analizziamo vini scientificamente, con un panel di degustatori, siamo interessati alla qualità ed al profilo del vino, non a giudicarlo. Il consumatore ci dice che vino gli piace, e in base ai nostri profili, scientifici, gli raccomandiamo nuovi vini da assaggiare. Tra il nostro algoritmo ed il giornalismo del vino non c’è molto in comune, noi non raccontiamo storie, ma l’elemento umano non può essere rimpiazzato, il nostro algoritmo risponde ad esigenze diverse, legate alla velocità ed al commercio: quando si compra si vogliono sapere cose ben precise. Giudicare un fine wine è sempre critico, ma il canale digitale è uno strumento perfetto per raccontare e giudicare un vino. È comunque difficile descrivere un vino - ammette Amy Gross - perché a volte il vocabolario condiviso che abbiamo non copre tutti gli aspetti gustativi, e poi da un Paese all’altro cambiano i punti di riferimento, pensiamo alla frutta, o ai fiori attraverso cui degustiamo gli aromi. Per me l’importante è che chi si avvicina a questa professione, da qualunque parte la approcci, sia mosso da passione e voglia di imparare. Alla gente piace vedere i video, saranno sempre più importanti nel futuro, sono immediati e veloci, ma ci sarà spazio per tutti”.
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