Nel dibattito sul commercio internazionale del vino, si tende a puntare il dito contro tensioni geopolitiche, guerre commerciali e politiche protezionistiche. Ma un nuovo studio rivela che un altro fattore, spesso trascurato, inciderebbe in maniera ancora più profonda: la religione. O almeno è quanto sostiene un rapporto pubblicato dell’American Association of Wine Economists (Aawe), condotto dal professore associato presso il Dipartimento di Agroalimentare ed Economia Applicata alla North Dakota State University, Sandro Steinbach, e Carlos Zurita, ricercatore presso il Dipartimento di Agroalimentare ed Economia Applicata alla North Dakota State University, pubblicato a luglio 2025, e intitolato “Faith and Fermentation: the impact of religious composition on global wine trade”, che ha analizzato i flussi vinicoli tra 102 Paesi dal 1988 al 2023 in relazione alla loro composizione religiosa. I risultati, effettivamente, sembrano sono sorprendenti: per ogni punto percentuale di “affinità protestante” tra due Paesi, le esportazioni di vino aumentano del +1,3%, mentre affinità cattoliche, ortodosse o musulmane risultano associate a scambi inferiori. “Lo studio si basa su un “modello gravitazionale” strutturale del commercio - prosegue l’American Association of Wine Economists.- uno strumento economico che spiega come i flussi commerciali tra due Paesi dipendono dalla “distanza” tra loro, non solo geografica ma anche culturale o religiosa, avvalendosi dei dati derivanti dal World Values Survey (Wvs), una delle principali fonti mondiali di dati sulla composizione religiosa e sui valori culturali dei Paesi. In questo caso, gli autori hanno dimostrato che una maggiore “affinità” religiosa tra Paesi riduce i costi impliciti del commercio, facilitando lo scambio di vino”, afferma l’Aawe. “Lo studio dimostra che un mondo religiosamente allineato sul modello protestante, per esempio, ridurrebbe i costi del commercio vinicolo più dell’azzeramento delle tariffe globali, con un potenziale aumento dell’export fino al 215%”, afferma l’American Association of Wine Economists. “In questo scenario estremo - fa notare l’Aawe - le esportazioni di vino francese, ad esempio, potrebbero crescere di oltre 2,6 miliardi di dollari solo verso il Regno Unito, seguito dall’export dalla Francia verso l’Italia (1,87 miliardi di dollari)”.“Lo studio evidenzia come le differenze religiose tra Paesi possono generare attriti nel commercio del vino, che si traducono in costi impliciti spesso superiori a quelli imposti da politiche commerciali tradizionali, come i dazi doganali. Questo tipo di barriere, dette “non tariffarie”, possono limitare selettivamente l’accesso al mercato per alcuni esportatori. L’analisi sottolinea quanto sia importante, per chi si occupa di politiche commerciali e per gli operatori del settore, considerare anche le somiglianze storiche e culturali tra Paesi, come la composizione religiosa, nel valutare i costi del commercio. Lo studio propone uno scenario ipotetico in cui alcune di queste differenze storiche vengono eliminate, mostrando che l’impatto delle divergenze religiose può essere tanto rilevante da eguagliare o superare quello dei dazi. Nel caso specifico del vino, emerge chiaramente che l’allineamento culturale, e, in particolare la condivisione di norme religiose, ha un’influenza concreta sui modelli di scambio. Per gli esportatori interessati a espandersi in nuovi mercati, ciò significa che le strategie di promozione dovrebbero tenere conto anche dei fattori culturali e religiosi, oltre ai classici indicatori economici. Allo stesso modo, le associazioni di settore e le agenzie per il commercio internazionale potrebbero riconsiderare il ruolo della compatibilità culturale nell’accesso ai mercati, nel posizionamento del brand e nella costruzione di relazioni commerciali durature”, conclude l’American Association of Wine Economists.
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