L’euforia generata, nel mondo del vino, e per fortuna, dalla crescita record delle esportazioni, che, nel 2013, hanno superato i 5 miliardi di euro in valore, ha fatto calare, almeno in parte, l’attenzione sul mercato domestico. Che, pur in costante calo, da anni, vale pur sempre la metà del totale, sia in volume che valore, per le cantine italiane, mantenendo un livello di consumo procapite importante, sui 40 litri all’anno. E che merita di essere analizzato, come hanno fatto osservatori, produttori ed operatori a “Wine2Wine” (www.wine2wine.net), nei giorni scorsi, a Verona. Le cifre? Poco confortanti, in realtà, perché in consumi sembrano decisamente condannati a diminuire ancora, almeno in volume.
“Un po’ perché la popolazione invecchia - ha detto Virgilio Romano (Iri) - visto che nel 1950 gli over 65 erano l’8% del totale, e oggi siamo oltre il 20%, secondo l’Istat. E ad invecchiare è proprio quella fetta di popolazione che consumava più vino e che ora fisiologicamente, deve ridurre i consumi. Un po’ perché il mondo del vino non riesce a dialogare bene con i giovani, molto attratti, anche grazie alla pubblicità, da birra, alcolici e bevande gassate. Un po’ perché, semplicemente, cambiano gli stili di vita. Non è un caso che negli ultimi 5 anni le vendite di vino in gdo, che ormai veicola il 75% delle bottiglie vendute in Italia, siano in calo tanto in volume che in valore. E anche il 2014 si chiuderà con un calo in entrambi i parametri, appena sotto al punto percentuale, anche a causa di prezzi sostanzialmente stagnanti, e di un forte ricorso alle promozioni, per non perdere quote di mercato”.
“Strategia che, però, può essere un vera tagliola: “quest’anno nel largo consumo di perderanno altri 8 milioni di euro in valore, il che vuol dire una ulteriore compressione dei margini - aggiunge Romano - già davvero ristretti, dato che l’80% del vino venduto nella distribuzione moderna viaggia dai 3 euro in giù a bottiglia. L’unica strategia sensata, visto che i volumi non crescono e non cresceranno, salvo miracoli, è cercare di trasferire più valore in quello che si vende. E questo si fa seguendo logiche di qualità e non di quantità, tenendo sulla scontistica, investendo in comunicazione e marketing in maniera professionale. E senza paura, visto che, spesso, quando si parla di pubblicità e vino in tanti invocano lo spauracchio “alcol”, mentre birra e superalcolici mostrano più coraggio. E i risultati si vedono. Il mondo del vino deve riconquistare soprattutto i giovani, e questo spetta ai singoli produttori, ma anche alle associazioni di categoria. Vanno trovati nuovi messaggi, nuovi linguaggi, nuovi testimonial per rientrare in contatto con quelli che saranno i consumatori di domani”.
L’altra faccia della medaglia della distribuzione di vino, ovviamente, sono le enoteche. “Siamo coscienti di rappresentare non più di un 10-13% del mercato - ha detto Andrea Terraneo, presidente Vinarius, associazione che riunisce oltre 100 tra bottiglierie e negozi in tutta Italia - ma a chi diceva, 25 anni fa, che con l’arrivo della gdo nel mondo del vino, eravamo destinati a sparire, dico che ci siamo ancora. Le enoteche resistono perché si sono adattate ed evolute, puntando su nuovi servizi per esempio, come quello ai ristoranti, che oggi ti chiamano anche per rimpiazzare “al volo” poche bottiglie, per esempio. E poi perché rispondiamo alle esigenze di un consumatore che, magari, spaesato dall’enorme offerta della gdo, da noi cerca un consiglio, una curiosità, una professionalità ed una passione diversa da quella che può trasmettere un grande punto vendita, ma anche un servizio come l’e-commerce, che in Italia non decolla. Anche perché, essendo realisti, in Italia poco più di 1 consumatore su 10 ha le basi per arrangiarsi da solo davanti ad uno scaffale. Il 90% delle persone deve ancora essere educato al vino. Certo è che il mercato, anche per noi, cambia: difficile oggi, in enoteca, vendere bottiglie che costano meno di 5 euro, per esempio. E si è complicata anche la gestione del magazzino, che oggi è un costo spesso difficile da sostenere. Non a caso, la tendenza generale, è quella di una maggiore rotazione delle referenze”.
Insomma, la situazione italiana è complessa, senza dubbio. Ma c’è chi è riuscito a crescere, negli ultimi anni, anche nel mercato nazionale. È il caso, tra gli altri, del gruppo Duca di Salaparuta, che comprende il marchio omonimo (riservato, però, al canale horeca), Vini Corvo e la firma storica del Marsala, Florio, come ha spiegato il dg Filippo Cesarini Sforza: “il mondo del vino negli ultimi anni è molto cambiato. Se 6-7 anni fa c’era posto per tutti e si poteva provare a trovare spazi, anche senza un metodo strutturato - ha spiegato Cesarini Sforza - oggi questo va rivisto: ogni azienda, partendo dai proprio volumi, dai propri fatturati, dalle proprie caratteristiche, deve capire quali cose può o non può fare, quali obiettivi può raggiungere o meno. Noi, per esempio, avendo alle spalle un gruppo grosso, strutturato, che fattura nel complesso 400 milioni di euro (la Illva Saronno Holding, ndr), abbiamo potuto fare delle scelte. Intanto dividendo i marchi per diversi mercati: Duca di Salaparuta per l’horeca, Corvo e Florio per la gdo. Scelta fondamentale, perché sono due canali che comunicano male tra loro. Ed in particolare, abbiamo lavorato su un migliore posizionamento di Corvo, che oggi è uno dei marchi leader del segmento premium (5-7 euro), investendo in comunicazione per migliorare la reputazione, dimezzando la promozionalità e così via. E dopo due anni difficili, in cui i consumi sono andati a picco, perché parliamo di una fascia di prezzo dove la concorrenza è spietata, e che recepisce con difficoltà un aumento anche minimo dei listini, oggi i numeri ci danno ragione. Certo, ce lo siamo potuti permettere. Ma il senso è che bisogna investire di più in comunicazione e marketing, in rapporto con il consumatore. Ed il motivo è semplice: uno scaffale con 300 etichette genera una confusione tremenda in chi deve scegliere un vino. E allora devi trovare un motivo da darli perché scelga il tuo, che vada al di là del discorso sulla qualità che, ormai, più che un valore aggiunto, è la basa di partenza. Parlare solo di prodotto, in poche parole, non basta più”.
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