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IL VIAGGIO DI UNA RUSSA CHE CONOSCE IL BELPAESE TRA CULTURA E COSTUME. “QUI DA NOI SCOPRIRE LA CUCINA VUOL DIRE SCOPRIRE L’ANIMA DEGLI ABITANTI” QUEST’ITALIA DAI MILLE SAPORI

Pubblichiamo un’ampia sintesi della prefazione di Umberto Eco al libro “Perché agli italiani piace parlare del cibo-Un itinerario tra storia, cultura e costume” di Elena Kostioukovitch, Sperling e Kupfer (538 pagine, 22 euro) ...

Perché dovrei scrivere la prefazione a un libro di cucina? Me lo sono chiesto quando l’autrice me lo ha domandato, e ho avuto il sospetto di aver subito acconsentito perché Elena Kostioukovitch è la mia traduttrice in russo e io l’ammiro non solo per l’amore e la pazienza che ha dedicato ai miei libri ma anche per la sua intelligenza e la sua vasta cultura. Ma basta questa ragione, mi domandavo, visto che io non sono un gourmet? Intendiamoci, il gourmet non è colui che, di fronte a un eccellente canard à l’orange o una generosa porzione di caviale del Volga con Bliny, si dichiara soddisfatto e felice.
Costui è solo una persona normale, dai gusti non depravati e che non si chiama McDonald. No, il gourmet, il buongustaio, l’appassionato di cucina è colui che è capace di affrontare un viaggio di centinaia di chilometri per andare in quel tal ristorante dove fanno il canard à l’orange migliore del mondo. E io non sono una persona di questo genere perché di solito, tra il mangiare una pizza sotto casa e fare non dico duecento chilometri ma anche una corsa in taxi per andare a scoprire una nuova trattoria, scelgo la pizza. Ma è proprio così? Mi sono reso conto che ho fatto chilometri e chilometri nelle Langhe (vicino alle quali sono nato, e di cui Elena parla nel capitolo dedicato al Piemonte) per condurre un amico francese (lui sì, gran gourmet) a scoprire i leggendari tartufi d’Alba, e altri chilometri ho fatto per partecipare a una seduta di bagna cauda a Nizza Monferrato dove il pranzo iniziava a mezzogiorno e terminava alle cinque del pomeriggio e tutto, salvo il caffè finale, era a base di aglio. E una volta sono andato nella più remota periferia di Bruxelles per assaggiare quella birra belga che si chiama gueuse e che può essere gustata solo sul posto, perché non sopporta il trasporto (tra parentesi, non andateci, meglio una buona ale inglese).
E allora? La cucina m’interessa o no? Riandiamo un momento agli esempi che ho citato. Una volta era per scoprire che tipo di birra amano i belgi, l’altra per far conoscere la civiltà piemontese a uno straniero e un’altra ancora per ritrovare il sapore di un rito come quello della bagna cauda che mi ricordava momenti magici della mia infanzia ... In tutti questi casi andavo alla ricerca di cibo non per ragioni di palato ma per ragioni di cultura, voglio dire non (o non soltanto) per sentire un sapore nella bocca, ma per avere un’illuminazione, o il bagliore di un ricordo, o capire e far capire una tradizione, una civiltà. E mi sono reso conto che, certo, se sono da solo, prendo la pizza sotto casa e non mi avventuro in un’esplorazione culinaria, ma non appena arrivo in un altro paese, prima ancora di visitare i musei o le chiese, faccio due cose: anzitutto cammino per le strade, cerco di perdermi in modo da girare a vuoto, a lungo, per vedere la gente, le vetrine, i colori delle case, sentire gli odori; e poi vado a cercare il cibo locale, perché senza l’esperienza del cibo non capirei il luogo in cui sono e il modo di pensare di chi vi abita.
E mi sono reso anche conto che in tutti i miei romanzi - forse un po’ meno nel Pendolo di Foucault dove i protagonisti (e i lettori) vivono per così dire a casa propria, tra Milano e Parigi, ma certamente moltissimo in Baudolino, ne L’isola del giorno prima e nel mio ultimo, La misteriosa fiamma della regina Loana - faccio mangiare moltissimo i protagonisti, così come faccio mangiare almeno una volta i monaci de Il nome della rosa, e li faccio girare a lungo in cucina. Perché, se ti avventuri nelle isole dei mari del Sud o nell’Oriente bizantino, o in un universo scomparso da centinaia o da decine di anni, devi far mangiare il lettore per condurlo a capire come pensano i personaggi.
Ho dunque un’ottima ragione per introdurre il libro di Elena. Perché Elena, che pure si rivela prodigiosa conoscitrice della cucina italiana in tutte le sue sfumature e i suoi misteri, ci conduce per mano (e diciamo pure per palato e per naso) nel suo viaggio culinario non solo per farci conoscere dei cibi ma per farci conoscere l’Italia, che essa ha passato la vita a scoprire. Questo che state per leggere è un libro sulla cucina ma anche un libro su un paese, su una cultura, anzi su molte culture. Infatti è sempre imbarazzante parlare di “cultura italiana” così come è imbarazzante parlare di “paesaggio italiano”. Se prendete un’automobile e visitate gli Stati Uniti, vi può capitare di viaggiare giorni e giorni per orizzonti sterminati (e quando vi fermate avrete sempre lo stesso hamburger della sosta precedente); se viaggiate nel Nord Europa potete percorrere a lungo, per orizzonti altrettanto ampi, chilometri di autostrada vedendo soltanto magnifici campi di segale - e naturalmente non cito l’esperienza di un viaggio per le steppe dell’Asia centrale, per i deserti del Sahara e di Gobi, per le distese australiane, al centro delle quali si leva il gran sasso di Ayers Rock. Questa esperienza di un contatto con l’immensità della natura ha prodotto l’idea del Sublime, che nasce sempre di fronte a mari in tempesta e a cieli, abissi, picchi montani sproporzionati, rupi impervie, ghiacciai senza fine, distese senza confini. Bene, non si viene in Italia per trovare la vertigine verticale delle cattedrali gotiche, l’immensità delle piramidi, le cascate del Niagara. Una volta che avrete superato le Alpi (dove certamente potreste avere impressioni sublimi, ma le potreste trovare anche in Francia, in Svizzera, in Germania o in Austria), iniziate ad avere un’esperienza diversa. L’orizzonte non si amplia mai a dimensioni titaniche, perché è sempre limitato a destra da una collina, a sinistra da un moderato rilievo montano, e il cammino è spezzato continuamente da piccoli centri abitati, almeno uno ogni cinque chilometri. E a ogni tratto di strada (salvo in un certo tratto della pianura del Po) avrete una curva, un mutamento di rotta, e il paesaggio cambierà, così che non solo da regione a regione ma all’interno della stessa regione voi scoprirete sempre un paese diverso, con infinite gradazioni dalla montagna al mare, passando attraverso colline di varia conformazione. Vi sono poche analogie tra le colline del Piemonte e quelle delle Marche o della Toscana, talora basta varcare da est a ovest o viceversa l’Appennino, che percorre tutto lo Stivale come una spina dorsale, per avere l’impressione di entrare in un altro paese. Sono diversi persino i mari, che sulla costa del Tirreno vi offrono panorami, tipi di spiagge, coste, diversi da quelli della costa adriatica, per non dire dei mari delle isole (...).
Incontrare la cucina italiana in tutta la sua varietà vuole dire scoprire la differenza abissale, non solo di linguaggio, ma di gusti, mentalità, estro, sense of humour, atteggiamenti di fronte al dolore e alla morte, loquacità o silenzio, che separano un siciliano da un piemontese o un veneto da un sardo. Forse in Italia più che altrove (anche se la legge vale per ogni paese) scoprire la cucina vuole dire scoprire l’anima degli abitanti. Provate a gustare la bagna cauda piemontese, poi la cassoela lombarda, poi le tagliatelle alla bolognese, poi l’abbacchio alla romana, e infine la cassata alla siciliana, e avrete l’impressione di esservi mossi dalla Cina al Perù, e dal Perù a Timbuctu. Praticano ancora, gli italiani, l’incontro con le molte cucine del proprio paese come mezzo di reciproca conoscenza? Non lo so. So che quando un straniero (o una straniera), mosso da grande amore per questa terra ma conservando pur sempre lo sguardo distaccato di chi viene dal di fuori, inizia a descriverci l’Italia attraverso la sua cucina, allora gli stessi italiani scoprono un paese che avevano (forse) in gran parte dimenticato. Del che dobbiamo essere grati a Elena Kostioukovitch.

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