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MERCATI E FUTURO

In Cina sta iniziando l’era del vino italiano. Al di là dei numeri. Parola di Raimondo Romani

“Ci sono le condizioni per il vero salto di qualità”. Così la guida, insieme a Flaviano Gelardini, della Gelardini & Romani Wine Auctions
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In Cina sta iniziando l’era del vino italiano. Parola di Raimondo Romani

Per l’Italia del vino, potrebbe essere il momento di fare il grande salto di qualità in Cina. Perchè, al di là dei numeri di oggi, ancora piccoli, l’appeal dei vini italiani cresce, tanto nel mercato delle aste che della ristorazione, al contrario di quelli di Francia, oggi leader assoluti, a partire da Bordeaux, che però iniziano a “stufare” (al netto del mito di Borgogna Romanée-Conti, che gioca una partita tutta sua) appassionati e collezionisti. Un cambio di passo possibile, a patto, però, di non perdere tempo, con i produttori che devono presidiare il mercato (e puntare forte sulla ristorazione cinese) anche per compensare l’assenza di una distribuzione “italiana” strutturata, con le perle del vino del Belpaese che entrano sempre più nel mirino dei “negociant” di Bordeaux, che forse prima degli italiani stessi hanno capito che il vento sta cambiando. Aspetto che, per ora potrebbe anche essere una opportunità, ma che potrebbe rivelarsi in futuro un “collo di bottiglia”. È, in estrema sintesi, il punto di vista, a WineNews di Raimondo Romani, alla guida con Flaviano Gelardini della Gelardini & Romani Wine Auctions, l’unica casa d’aste specializzata in vini italiani, e da 8 anni di stanza ad Hong Kong, dove ha sviluppato, da 5 anni, anche l’attività di distribuzione, esclusivamente di vini tricolore, da tutto il Paese, nella stessa Hong Kong, in Cina e a Macao, con un osservatorio di lungo corso, e privilegiato, sulle dinamiche ed i cambiamenti di quello che da tutti è considerato il più grande mercato del vino del prossimo futuro.
“L’Italia deve riconquistare la sua leadership, tornare ad affermare che è il Paese che ha diffuso la viticoltura ed il vino in Europa. E se è vero che nel 900 il mercato è stato dominato dal modello anglo-francese, che ha fatto le fortune di Bordeaux, e che ha caratterizzato anche il mercato asiatico degli ultimi anni, soprattutto attraverso Hong Kong (che fino al 1997 è stato protettorato inglese, ndr), che è la vetrina attraverso cui la Cina guarda all’Occidente, ora questo sistema sta entrando un po’ in crisi, e sta passando un treno che l’Italia deve assolutamente cogliere. Se guardiamo al solo mercato delle aste, per esempio, che è dominato dai compratori asiatici, vediamo che la distanza che c’era tra Francia ed Italia, almeno nella grande fascia dei 1.000 dollari a bottiglia, non c’è più. Bordeaux non tira più come un tempo, ora la star è la Borgogna, che poi è essenzialmente Domaine de La Romanée Conti, che con il 5% delle bottiglie scambiate vale un quarto del mercato, e che fa storia a se. Ma per il resto, noi abbiamo tante etichette competitive quanto e più dei francesi, con i grandi nomi di Toscana e Piemonte, con alcune griffe dell’Amarone, e non solo. Penso all’Etna, che funziona benissimo anche grazie a prezzi ancora molto vantaggiosi, ma crescerà tantissimo. Ma vale anche per il mercato in generale, e per la ristorazione. Ed i primi a capirlo sono stati proprio i negociant di Bordeaux, che arricchiscono sempre più spesso il loro portafoglio con i nostri gioielli enoici. E questa, per ora, può anche essere un’opportunità, in mancanza di una distribuzione italiana forte. Ma è logico che i wine merchant francesi, e in parte anche gli inglesi, spingano soprattutto i loro prodotti, e presto le nostre etichette, nelle loro mani, rischiano di trovarsi in un collo di bottiglia”.
Non di meno, sottolinea Romani, l’aspetto positivo, almeno nel collezionismo, è che le bottiglie dei grandi vini italiani sono ormai ben presenti in tutte le collezioni più importanti del mondo, ed anche grazie a questo l’appeal dell’Italia del vino è destinato a crescere tanto.
“Siamo difronte alla possibilità di fare un vero salto di qualità, un vero cambio di passo, ma dobbiamo essere coscienti che non abbiamo nulla di meno degli altri in termini di cultura e di qualità del vino, ed affermarlo con orgoglio”.
Una spia di questo momento di cambiamento, è anche il fatto, per esempio, che seppure i vini italiani rappresentino solo il 6% dei vini importanti in Cina, nelle carte dei vini dei ristoranti siano in più presenti (il 18% delle referenze) dopo la Francia, come racconta la ricerca di “Wine Business Solutions” in collaborazione con la “China’s Wine List of the Year Awards”, su 36.000 carte dei vini di Cina. E non deve spaventare la netta flessione delle importazioni, superiore al 20%, che ha coinvolto tutti i principali esportatori di vino in Cina, Italia inclusa, nei primi 3 mesi del 2019, secondo i dati delle Dogane cinesi, riportati dall’Ice.

“L’Italia deve capire che non possiamo giocare sull’entry level, perchè in questa fascia l’Australia è molto più forte: non paga dazi, è molto più vicina, ha costi di produzione e logistica su cui non possiamo competere. Come non dobbiamo pensare a fare la guerra al mondo nel 3% della ristorazione occidentale in Cina, dove nessuna cucina straniera ha sfondato davvero (al netto di qualche eccellenza, come l’8 ½ di Bombana ad Honk Kong, unico tristellato michelin italiano fuori dall’Italia, ndr). Il mercato vero è la ristorazione cinese, dove anche noi stiamo lavorando tanto, perchè ci siamo accorti che manca completamente la cultura del vendere vino, e le bevande in genere, al ristorante, ma facendo formazione i margini sono tanti. Ed anche per questo è fondamentale lavorare con i player della ristorazione, ma anche dell’hotellerie e del catering cinesi. Tenendo sempre presente che oggi la Cina e l’Asia sono un mercato in cui la domanda è molto legata alle mode, e per avere successo, quindi, è l’offerta che deve lavorare per creare la domanda. Questo vuol dire che, in Cina più che mai, non basta spedire il vino sul mercato e lasciarlo andare, perchè altrimenti finchè c’è euforia ed è di moda, un prodotto funziona, ma poi viene abbandonato e si ferma. Serve presenza costante, presidio sul mercato, da parte dei produttori e degli operatori. E poi - aggiunge Romani - serve anche una lavoro diverso a livello di istituzioni e di accordi commerciali. Qui le istituzioni stanno facendo un grande lavoro, ma in Cina serve un tempo lungo che spesso va oltre la durata degli incarichi di un consolato, per esempio. Ma più di questo servono accordi commerciali e doganali che ancora mancano, non solo sul vino, ma anche su altri prodotti di eccellenza dell’enogastronomia italiana, dai salumi alla mozzarella, che i cinesi sarebbe disposti a comprare e pagare, ma che per tanti motivi non riescono arrivare sul mercato. Si potrebbe crescere tanto, facendo poco di più. È come se l’Italia del wine & food avesse l’oro davanti alle mani, in Cina, ma non riusciamo ad allungarle per afferrarlo”.

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