Se pensate che i numerosi e variegati vitigni autoctoni utilizzati dai produttori dello “stivale” servano esclusivamente a produrre i grandi vini italiani come il Brunello di Montalcino, il Barolo, il Nobile di Montepulciano, il Barbaresco, il Chianti Classico e qualche altro ancora, beh, vi sbagliate! Le comunità ebraiche presenti sul territorio italiano, infatti, utilizzano varietà come Sangiovese, Canaiolo, Trebbiano e Malvasia anche per produrre i cosiddetti vini kasher, termine usato per indicare tutti i cibi e le bevande che possono essere consumati perché preparati secondo le regole prescritte dal Tora (Insegnamento), un compendio di disposizioni giuridiche e morali atte a regolamentare i rapporti tra Dio e l’uomo e tra uomo e uomo.
Uno dei centri italiani più importanti per la produzione di vini kasher è senza dubbio Pitigliano, piccola cittadina situata nel cuore della Maremma, famosa nel mondo per il suo Bianco di Pitigliano doc. Qui, ormai da decenni, a ricordo di un'importante comunità ebraica sorta nei primi anni del ‘500, la cantina cooperativa - una realtà che riunisce 500 soci per una superficie vitata specializzata di 600 ettari e che detiene il 90% dell’intera produzione di Bianco di Pitigliano - realizza questi vini nel rispetto della religione semita. I vini kasher vengono prodotti sia nella tipologia bianco che rosso, sono di gradazione alcolica non superiore ai 12°, vengono solitamente abbinati ad arrosti, pesci al cartoccio, formaggi piccanti e a pasta molle.
Secondo la tradizione ebraica, i vini kasher devono essere i sottoposti ad una regolamentazione specifica: l’intero processo enologico - dalla scelta degli uvaggi alla spremitura, dalla fermentazione alla svinatura, dai travasi alla refrigerazione, dai filtraggi all’imbottigliamento - si svolge sotto il diretto controllo del rabbino capo, il quale, al termine di ogni fase, sigilla i contenitori che vengono usati al posto delle botti. Il vino kasher, che significa “vino idoneo”, oltre a subire la costante supervisione del rabbino capo deve essere “maneggiato” esclusivamente da personale ebreo, che, secondo l’opinione più rigorosa, deve essere osservante dello Shabbath, la più grande festa ebraica che si rinnova ogni sabato da tempo immemorabile, durante il quale l’uomo si riconnette alla realtà di Dio. Tale rigore è osservato anche nella stappatura della bottiglia, che deve essere compiuta da un ebreo con gli stessi requisiti.
Perché tanto rigore? Il vino, nel rito ebraico, riveste un ruolo simbolico, viene usato nelle cerimonie di santificazione e all’inizio di ogni festa. Il pasto diventa un rito da celebrare sull’altare della tavola ed un’equivalenza simbolica di tal fatta innalza, senza dubbio, il livello di rigorosità spiegando in tal modo il perché la bottiglia debba essere aperta e maneggiata da un ebreo osservante.
Agnese Pellucci
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