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La lectio magistralis di Tomaso Montanari (Università di Napoli): è il convivere di persone di culture diverse in mezzo ai monumenti, alla lingua, nella scuola, tra i sapori di un altro popolo, in modo inclusivo, il mix che crea la vera integrazione

È il convivere di persone di culture diverse in mezzo ai monumenti, alla lingua, nella scuola, tra i sapori di un altro popolo, il contatto e l’inclusione delle diversità in un patrimonio culturale (nel senso più ampio del termine) comune, il mix di ingredienti che realizza l’integrazione vera. È questo, in estrema sintesi, il senso della lectio magistralis “Il patrimonio culturale italiano: di chi è e come si protegge” di Tomaso Montanari, docente di Storia dell’Arte Moderna all’Università Federico II di Napoli, nel Salone del Gusto. Che, di seguito, vi proponiamo integrale …
“I compagni di classe dei miei figli si chiamano Lorenzo e Tommaso, ma anche Samir e Pawan; Elena o Mattia, ma anche Whalidh e Danna. E i loro nomi fanno subito capire che alcuni sono nati in Italia, altri no. Ma vanno tutti alla stessa scuola: una scuola pubblica (cioè di tutti, e per tutti) che si chiama “Francesco Petrarca”. Per andarci, camminano in una strada antica, e di fronte alla scuola c’è una chiesa costruita trecento anni fa, piena di quadri e di statue in parte anche più antichi. Quando questi bambini usciranno da quella scuola saranno tutti cittadini italiani. Lo saranno di fatto, anche se non per legge. Lo saranno grazie al lavoro delle loro maestre, che sono bravissime. Lo saranno perché impareranno a parlare l’italiano di Francesco Petrarca. Lo saranno perché ogni giorno avranno camminato per quella strada antica, e avranno visto (non importa se distrattamente) quella chiesa, quelle statue, quei quadri. Lo saranno perché avranno mangiato ogni giorno il frutto di questa terra, preparato come ci insegna la storia. E non è questione di ’identità’. Non siamo mai stati una nazione “per via di sangue”: non c’è nazione più meticcia di quella italiana, eterna preda dei più diversi conquistatori. Semmai lo siamo stati, e lo siamo, per cultura.
Negli stessi versi dell’XI canto del Purgatorio in cui Dante mette in chiaro che Guinizzelli, Cavalcanti e poi soprattutto lui stesso hanno la gloria di aver fondato la lingua italiana, vengono esaltati i fondatori dell’altra lingua degli italiani, Cimabue e Giotto.
La lingua monumentale dell’arte è quella che ha reso unico al mondo, e inconfondibile, il suolo, cioè il territorio, dell’Italia: e che, lungo i secoli, ha reso noi tutti “italiani” per purissimo ius soli culturale. D’altra parte, una delle pochissime volte che la Costituzione utilizza la parola “nazione” è proprio quando prende atto, all’articolo 9, che questa preesiste alla Repubblica proprio grazie al “paesaggio e al patrimonio storico e artistico”. In questo modo la Costituzione ha spaccato in due la storia italiana, assegnando al territorio della nazione una missione nuova al servizio del nuovo sovrano, il popolo. La storia dell’arte è in grande parte la storia dell’autorappresentazione delle classe dominanti, per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto al bene comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia. La nostra terra è divenuta un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati. Entrando nei musei, le opere del passato hanno perso la loro funzione originaria (politica, religiosa, dinastica…) acquistandone una puramente culturale (forse più alta, forse più libera: certo diversa). Se impareranno a parlare la lingua della Cappella Brancacci, del paesaggio e del cibo toscani, Pawan e Whalidh non abbracceranno la storia delle istituzioni occidentali, la religione cattolica e nemmeno la storia della gastronomia italiana, ma i valori inclusivi, tolleranti e aperti della Costituzione. Non si vincoleranno alle ’radici’ della identità collettiva italiana, ma accetteranno di fluire nelle acque - felicemente impure, mescolate, contaminate - della tradizione italiana: e il contesto inscindibile paesaggio-patrimonio-cibo può, e anzi deve, generare non nuovi clienti, ma nuovi cittadini. Ma questo potrà accadere solo se sapremo vivere questo contesto non come una merce di lusso, ma come un luogo di costruzione dell’eguaglianza e della giustizia. Il documento che indica il percorso di Slow Food fino al 2016 (La centralità del cibo, redatto sotto la guida di Carlo Petrini) dice che “oggi si pensa ai consumatori come a coloro che ’comprano’ il cibo: ma se il cibo interessa solo in quanto viene venduto e acquistato (divenendo competenza delle politiche economiche e non della politica in sé) si perde di vista il cibo come diritto”.
È esattamente quello che succede quando il resto del patrimonio culturale viene mercificato: quando diciamo che gli eventi privati celebrati nei musei o negli spazi pubblici monumentali sono ’esclusivi’ ne denunciamo (forse inconsapevolmente) l’ingiustizia. La missione che la Costituzione affida al patrimonio è quella di essere inclusivo, non esclusivo; di costruire l’eguaglianza, non di celebrare il lusso di pochi; di renderci tutti più civili, non di umiliare chi non arriva alla fine del mese. Paradossalmente, la cena “esclusiva” della Ferrari organizzata su Ponte Vecchio nel giugno del 2013 ha coniugato perfettamente cibo e monumenti: mostrandoci esattamente come non dobbiamo usarli”.

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