Se l’export salva il comparto del vino italiano, buona parte del merito va agli Stati Uniti, un mercato solido, in crescita costante, ed in cui i territori enoici del Belpaese godono già della stima di molti. Un successo figlio di un lungo lavoro, fatto sia dalle aziende che dagli importatori, ma che si può migliorare, partendo dalla conoscenza approfondita del mercato e delle dinamiche che lo caratterizzano, come ha spiegato all’incontro di scena ProWein (da oggi al 17 marzo a Düsseldorf, www.prowein.com) “Exporting wine to the United States: How much will your 3 euro wine cost an U.S. consumer?” Steve Melchiskey, managing member di Usa Wine West, tra i principali importatori e distributori del Paese.
Conoscere vuol dire prima di tutto non fermarsi alle apparenze, né a quanto si crede di sapere, perché gli Usa nascondono più di qualche sorpresa. Prima di tutto, nella top 10 dei consumi di vino pro capite, ci sono Stati su cui difficilmente si focalizzano le aziende europee, segno che l’orizzonte non si esaurisce a New York: District of Columbia, New Hampshire, Massachusetts, Vermont, Nevada, Connecticut, Delaware, New Jersey, Rhode Island, California, Hawaii, ognuno con le sue peculiarità e con le proprie possibilità di crescita. Diventa così ancora più fondamentale conoscere gli Stati Uniti, saper rapportare i propri prodotti al mercato, ribaltando in qualche modo i rapporti tradizionali: la prima domanda che si deve porre un produttore è cosa stia cercando il retailer, di cosa ha bisogno il mercato, che genere di prodotto potrebbe riscuotere successo. Quindi, è necessario fare le proprie ricerche, in prima persona, visitare i diversi Stati, parlare con i grossisti, ed iniziare a tessere una tela di rapporti personali, fondamentali nella costruzione del business enoico d’Oltreoceano: “persino il Barone Philippe de Rothschild - racconta Melchiskey – ha girato incessantemente gli Stati Uniti negli anni ’60 e ’70 per costruire il suo mercato di riferimento”.
A questo punto, va scelta una strategia, ossia, essenzialmente, se affidarsi ad un importatore/grossista “Single State”, ossia che copre il mercato di un singolo Stato, o “Multi State”, capace quindi di occuparsi di un maggior numero di Stati: nel primo caso ci sarà una maggiore possibilità di controllo ed un maggior focus strategico, ma la logistica sarà probabilmente inferiore, così come le possibilità di crescita. Le aziende capaci di fare grandi numeri, e quindi in grado di produrre milioni di bottiglie, hanno una terza possibilità, la più strutturata, rivolgersi ad un “National Importer”.
Alla base di tutto, però, c’è per forza di cose il prezzo. Conoscere le dinamiche di prezzo che la propria bottiglia si troverà ad affrontare una volta arrivata negli Stati Uniti è a dir poco fondamentale, e in quest’ottica può essere d’aiuto il modello relativo alla bottiglia da due euro. La base di partenza è sempre il tasso di cambio euro/dollaro, particolarmente conveniente in questo periodo, per cui ex-cellar la singola bottiglia costerà, di base, solo 2,40 dollari, pari a 28,80 dollari a cassa (da 12, l’unico formato esportabile in Usa). Il prezzo della cassa di vino, appena arrivata negli Stati Uniti, tra costi di trasporto, tasse e spostamento in magazzino, sarà già lievitato sino ai 38,80 dollari. A questi, va aggiunto il margine dell’importatore, che si calcola, mediamente, moltiplicando per 1,35 il costo di ogni bottiglia: si arriva così a 52 dollari. A questo punto entra in gioco il grossista, che dovrà pagare, in media, 6 dollari a cassa, tra tasse statali e trasporto, oltre, ovviamente, al proprio margine di guadagno, più o meno del 28%: ecco che il prezzo sale fino a 80 dollari per una cassa. A questo punto, c’è l’ultimo passaggio, con il retailer che fa il prezzo finale, garantendosi un guadagno medio del 33%, ed ecco che la bottiglia che alla cantina italiana è stata pagata 2,40 dollari arriva al consumatore americano a 9,90 dollari.
E non è finita, perché ci sono da affrontare un gran numero di beghe burocratiche ed amministrative, di cui solitamente si occupa l’importatore, e un’attività serrata per essere sempre presenti ed attenti ai consumatori: sono loro il target finali, non l’importatore. E per conquistarli, in un mercato ancora un po’ “superficiale” come quello Usa, possono rivelarsi una leva fantastica i punteggi dei grandi wine critici, uno su tutti, Robert Parker.
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