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La Stampa

Vino, è allarme. Botti piene e casse vuote ... Non passa weekend senza una manifestazione in onore di Bacco: sagre paesane, convention, corsi di degustazione, oltre a trasmissioni tv e riviste specializzate. Eppure il mondo del vino trema. Sono rossi non soltanto i grandi Docg, ma anche i conti di tante cantine. In Veneto molte banche premono per rientrare dei crediti concessi. La Barbera, il Barbaresco, il Chianti e il Brunello non si vendono più: costano troppo. Nei supermercati vanno a ruba solo le bottiglie Doc a meno di due euro, che fanno concorrenza al Tavernello. Il quale, invece, va alla grande, con una crescita continua delle vendite: dallo stabilimento di Forlì escono 14 Tir al giorno. E non è finita. Nel settore «horeca» - hotel, ristoranti e caffè - vanno bene soltanto gli stellati e i locali con i ticket: il lusso (che non fa i numeri) e le mense. Gli altri, in difficoltà, non pagano i fornitori di vino e comprano da una a sei bottiglie per volta. E’ il ritratto sconfortante di un mondo che rappresenta in Italia un giro d'affari da 8miliardi, con un milione e 200 mila addetti, coccolato dai media con immagini da rivista patinata in nome del «made in Italy» e del «terroir». Intendiamoci, nessun wine maker fa la fame, per ora. Ma è in atto una rivoluzione nei consumi e nella distribuzione dalle conseguenze imprevedibili. Si salva chi sa fare marketing, chi ha un nome affermato, chi corre in giro per il mondo a vendere le sue etichette. E infatti gli unici dati positivi arrivano dall’export negli Stati Uniti (cresciuto del 14%, in valore). Finito il periodo d’oro Da Nord a Sud, ascoltando le voci dei produttori famosi e non - superata la ritrosia a parlare, per la prima volta da anni, di difficoltà e non di successi - emerge un quadro a tinte fosche. Per il piemontese Nino Conta, dell’azienda Malgrà di Mombaruzzo (1 milione 600 mila bottiglie), «il periodo d’oro per i piccoli produttori “sconosciuti”, che venivano acquistati dai ristoratori a scatola chiusa, è finito. La linea di vendita era libera, oggi invece i consumi si sono fermati». Per la toscana Donatella Cinelli Colombini, di Montalcino, nota «donna del vino» e assessore al Comune di Siena, «la situazione è grave ovunque, l’Italia ha il freno a mano tirato. All'estero ci copiano i prodotti, ho visto un "Terra di Siena made in California". Purtroppo i nostri enti di promozione sono inadeguati, cioè Ice ed Enit. Per non parlare della vergogna nazionale dell’Enoteca d'Italia...». Già, mentre i nostri concorrenti sui mercati esteri - Sud Africa, Australia, Cile, Argentina - si sono fatti più aggressivi, la Spagna replica con investimenti di promozione del suo vino pari a 92 milioni di euro, contro i 22 del nostro Paese. Vendemmia 2005 in calo Per fortuna la vendemmia 2005 è in calo dopo quella «normale» del 2004 - meno 10 o 20 per cento, a seconda delle regioni - e molti hanno cercato di svuotare le cantine, con la conseguenza che perfino il Tavernello ha subìto la concorrenza di vini imbottigliati in «dumping ». Gli italiani non rinunciano al vino, tornano a berlo in casa piuttosto che nei ristoranti, ma lo vogliono pagare poco. «Mister Tavernello» è Sergio Dagnino, direttore generale di Caviro, la cooperativa di secondo livello che imbottiglia il prodotto di 33 mila soci: «In Italia qualcuno si deve essere ubriacato: tutti hanno investito credendo che i prezzi fossero sostenuti dai sommelier e dalle riviste. Hanno fatto fortuna quelli che vendono macchine imbottigliatrici, utilizzate in realtà al 25 per cento». Nel Sud ci sono stati investimenti da 20 milioni di euro per creare cantine da meno di un milione di bottiglie, finanziate fino all’80 per cento dall’Ue. Nei supermercati crescono soltanto le fasce più basse: del dieci per cento i prodotti sotto un euro (!), del tre per cento i brik Caviro dei marchi Castellino (a 1,50 a pezzo) e Tavernello (a 1,25), del sei-sette per cento le etichette fino a tre euro. Mentre i giovani consumano vino soltanto nei wine-bar, sta morendo l’enoteca tradizionale. Racconta il lombardo Giovanni Longo, che a Legnano gestisce un magazzino di regalistica e fornisce le bottiglie giorno per giorno ai ristoratori: «Li capisco, una volta per avere una carta da 100 etichette si facevano mandare sei cartoni da ciascuno, che significava tener fermi 30-40 mila euro. Adesso vanno anche al market a comprarsi quel che gli manca...». A Milano c’è una società, la Partesa, che serve 17 mila ristoranti in tutta Italia: nata dalla Heineken (quelli della birra) e dalle acque minerali, da qualche anno si è lanciata nel vino. Il direttore commerciale, Francesco Ganz, sprizza ottimismo: «Distribuiamo in esclusiva grandi nomi come Umani Ronchi, Caprai e tanti altri: ormai il fatturato è di 74 milioni di euro l’anno, il 15 per cento del totale. Contiamo di arrivare al 20%, mettendo a contatto le cantine con i locali: facciamo manifestazioni e forniamo anche il day by day per certe etichette più care». Conferma Alessandro Locatelli, piccolo produttore di Barolo a La Morra, titolare della Rocche Costamagna: «Il cambiamento nella distribuzione è stato epocale. Chi, come noi, produce al massimo 100 mila bottiglie sulle Langhe e non può puntare sulla grande distribuzione o sulle grandi agenzie, si salva con le vendite dirette in cantina (in aumento) e grazie ai continui viaggi promozionali. E infatti non soltanto i piccoli devono «correre». Anche Angelo Gaja, il grande produttore che da Barbaresco ha rilanciato l’immagine del vino italiano nel mondo, ammette: «Sto partendo per il Giappone e abbiamo dovuto rinverdire il nostro messaggio negli Stati Uniti, in Russia, Danimarca, in Oriente, dopo il calo del mercato tedesco per la loro crisi. Le mie aziende fatturano all’80 per cento all’estero, e non mi stupisce che in Italia la fascia dei "premium wines", quelli più cari, sia in difficoltà. E’ sempre stato così. L’unica strada per rispondere alla crisi non sta nel calo dell’Iva o in aiuti di Stato, come chiede qualcuno. Si deve continuare la strada della qualità, i successi non mancano». Certo, un Brunello a 35-40 euro in enoteca incomincia a pesare, contro un Nero d’Avola a 8-10 euro o un «Harmonium», il vino superpremiato di Firriato (Trapani), venduto a 18-19. Vinzia Novara Di Gaetano, titolare dell’azienda siciliana con il marito e «volto» famoso di tante campagne pubblicitarie per i suoi prodotti, ha una sola ricetta: «Da sei anni teniamo fermi i prezzi e siamo premiati: oggi vendiamo il 40 per cento dei nostri 4,5 milioni di bottiglie in Italia. Il consumatore si fida del buon rapporto qualità/prezzo». La fortuna del biologico Un’altra «chance» viene dal biologico: ci crede Sergio Mottura, che a Civitella d’Agliano (Viterbo) produce Grechetto e Orvieti certificati: «Non lo chiedono soltanto in California, ma adesso anche in Massachusetts, New York, Connecticut, Minnesota. E in Norvegia ho vinto il bando del monopolio per le importazioni perché sono un single wineyard (chi imbottiglia soltanto vino dei propri vigneti, ndr), con viti autoctone e biologiche». Più che parlare dei bouquet di viole e liquirizia, qualcuno forse ora dovrà incominciare a prendere lezioni da «mister Tavernello».

«Una crisi difficile: nelle vigne lacrime e sangue»

Cosa ne pensano i media del settore? Commenta il direttore della rivista «Barolo & Co», Elio Archimede: «Prevedo lacrime e sangue per i produttori di rossi in Piemonte, se non vogliono diventare schiavi delle banche. Nell’area del Barbera si sono moltiplicati gli imbottigliatori. Servono una politica per il vino e un ente gestore». E Enzo Vizzari, direttore delle Guide enogastronomiche dell’«Espresso»: «Se ci sono le cantine piene, significa che hanno sbagliato gli imprenditori. I problemi sono strutturali, è cambiato il mondo: si vince soltanto con una forte identità, con vere azioni di marketing, con vini che si distinguano. Ma soprattutto sarebbe sbagliato puntare proprio ora sulla fascia medio-bassa».

Zonin: a Berlusconi chiedo di abbassare l’Iva e aiutarci a far ripartire i consumi
Con ottanta milioni di euro di fatturato e 23 milioni di bottiglie ogni anno, quella del gruppo Zonin di Vicenza è la cantina privata più grande d’Italia. La guida il cavalier Gianni Zonin, imprenditore che conosce bene il mercato del vino. A Berlusconi chiede fondi per la distillazione e diminuzione dell’Iva. Le sue richieste non sono condivise da tutti, ma l’analisi sì.
Cavalier Zonin, come va il vino?
«Noi andiamo bene, il settore no. Lo dico da due anni, ma non mi ascoltano. Stanno cambiando le modalità di consumo, i mercati esteri diventano più difficili per la concorrenza di Paesi enologicamente “nuovi”, come il Cile, l’Argentina, l’Australia».
Scusi, ma è comodo parlare dall’alto di migliaia di ettari a vite. Quanti ne ha?
«Sono 1800 ettari, un po’ in tutta Italia.Ma noi affrontiamo il mercato in modo diversificato, senza romanticismi. Abbiamoalcune aziende che producono vini di alta qualità in diverse regioni. Lo sa che in per mettere insieme 150 ettari in Piemonte ho dovuto fare 128 atti notarili? La dimensione media delle aziende nel nostro Paese è di 1,2 ettari, contro i 4 della Francia e gli 8-9 della Spagna. E in Australia sono più di cento ettari: ecco perché ci fanno la concorrenza...».
Lei fa vino da quarant’anni, la sua famiglia da sette generazioni. Come è cambiato il settore?
«Dagli Anni Sessanta fino alla crisi delmetanolo, nel 1986, nei ristoranti si chiedeva soltanto il rosso o il bianco. Il vino era un consumo alimentare, ma in continuo calo. Pensi che allora gli italiani bevevano 110 litri procapite l’anno. Si è perso un litro ogni anno, mentre aumentava la birra, passando da 10 a trenta litri. Tutto è cambiato alla fine degli anni 80. con la grande crescita della nostra enologia».
La parola d’ordine è stata finalmente, qualità ...
«Già, ma ho paura che sia diventata virtuale. Grazie al successo degli Anni Novanta, molti credevano che fosse sufficiente comprare un vigneto per fare i soldi. Mentre i prezzi schizzavano in su, i consumi diminuivano». Perché? «Sono cambiate le abitudini della gente, a mezzogiorno si mangia un panino al bar».
E ci sono state le vendemmie scarse.
«Per fortuna. Quelle del 2002 e del 2003 sono state le due annate più basse dal dopoguerra, salvo il 1957. Poi nel 2004 la produzione è tornata a 52 milioni di ettolitri, da 42. Così è incominciata la crisi. L’ultima vendemmia del 2005 registra un nuovo calo del 10 per cento, ma la sovraproduzione rimane: Puglia, Sicilia, Calabria hanno chiesto lo stato di crisi. Ci hanno concesso due milioni di litri da distillare, un bicchier d’acqua nell’oceano».
Ha qualche soluzione?
«Ho chiesto a Berlusconi che il governo tagli l’Iva dal 20 al 10 per cento, per far ripartire i consumi».
Quanto costerebbe alle finanza pubbliche?
«Circa 250 milioni di euro. E poi bisogna puntare su un vero rapporto qualità-prezzo».
Lo dicono tutti.
«Noi l’abbiamo fatto: dalla tenuta in Maremma, Rocca di Montemassi, abbiamo messo sul mercato 40 mila bottiglie di un Monteregio Doc a poco meno di 5 euro nei negozi. E’ andato via in 5 giorni».
Perché non lo chiamate semplicemente Zonin? Avete una dozzina di marchi.
«Cosa vuole, è un problema di marketing ... All’estero l’australiana Penfolds ha in etichetta semplicemente «Cabernet Sauvignon», in Cile ci sono i «Santa Rita», in California i Mondavi ... Il consumatore italiano è più complicato. Io sono per i vitigni autoctoni, per carità, ma si deve capire che le dimensioni e l’organizzazione dell’enologia italiana non sono competitive».
Autore: Gigi Padovani

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