Ammettere la pratica della dealcolazione del vino in tutti i Paesi dell’Unione Europea, anche per le produzioni a Denominazione d’Origine: ecco la novità, che arriva dall’ultimo trilogo dell’Ocm Vino, sostenuta dalla stragrande maggioranza degli Stati Membri, pronta a scompaginare il mondo enoico, ma ancora tutta da capire e, soprattutto, da concretizzare. E da approcciare, possibilmente, in maniera laica, per capirne i motivi, gli obiettivi e le conseguenze sul settore. “Stiamo parlando di un possibile accordo tra Presidenza del Consiglio, a guida portoghese, con la Ministra dell’Agricoltura Maria do Céu Antunes, Parlamento e Commissione Unione Europea, emerso nell’ultimo trilogo dell’Ocm Vino”, spiega a WineNews Paolo De Castro, coordinatore S&D alla Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo. “Il Parlamento Ue ha difeso la sua posizione, che prevedeva la dealcolazione esclusivamente per i vini da tavola, il Consiglio dei Ministri dell’Agricoltura, invece, sulla spinta del Nord Europa, ma anche con l’apertura di alcuni grandi produttori, alla fine ha accolto la mediazione della Commissione che ha aperto, seppure con alcune limitazioni, anche alla dealcolazione dei vini a Denominazione d’Origine. Ma c’è un però: non è deciso nulla, l’ultimo trilogo ci sarà il 23, 25 e 26 maggio, e non escludo che possa essercene un altro a giugno prima della conclusione definitiva dell’accordo inter istituzionale Parlamento-Commissione-Consiglio”.
Questo il quadro politico, che prende le mosse da un lato da necessità di mercato, e quindi di mera natura economica, dall’altro da un contesto europeo in cui la lotta per politiche sempre più all’insegna del salutismo - raccolte nello “EU Beating Cancer Plan” - trova ampio appoggio tra i Ministri dell’Agricoltura del Nord Europa. “Indubbiamente, l’accordo potenziale è stato raggiunto, ma i grandi produttori - continua De Castro - la vedono come un’opportunità. L’esempio più calzante, emerso anche durante il trilogo, è quello dei Paesi Arabi. Non andiamo a togliere nulla a quanto già esiste, creando un’enorme possibilità in quei mercati che non consumano bevande alcoliche. Così come la birra analcolica si è creata un suo mercato, non escludo che il vino possa fare altrettanto. Su una cosa, però, voglio essere chiaro: chiamare vino una bevanda a base di succo d’uva dealcolato non ha oggettivamente ha nulla a che vedere con il vino. Dopodiché, per alcuni produttori può essere un’opportunità, ma da qui a definirlo vino ce ne passa”.
Tornando ai contenuti dell’accordo, e al ruolo dei singoli Paese, “la mediazione che avevamo ottenuto al Parlamento Europeo era una mediazione migliore, perché spingersi ad usare anche i vini a denominazione d’origine non è accettabile, e voteremo sicuramente contro. Gli Stati Membri - ricorda il coordinatore S&D alla Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo - avranno comunque la libertà di accogliere o meno alcuni aspetti. Faccio presente, ad esempio, che nel caso dell’uso dello zucchero di saccarosio, il cui utilizzo è ammesso dall’Unione Europea, Italia e Spagna hanno deciso norme nazionali restrittive, e così da noi è vietato, tanto che per alzare la gradazione alcolica di un vino possiamo usare solo il mosto concentrato, mentre altri Paesi Europei lo utilizzano. Ci possono essere norme nazionali più restrittive, aspettiamo il testo finale”.
In definitiva, secondo Paolo De Castro, “fare una bevanda a base di uva dealcolata, per conquistare nuovi mercati, ha un senso. Aprire questa possibilità ai vini a denominazione invece non ha senso, ma guarderemo bene l’accordo finale e cercheremo di fare norme nazionali per evitare almeno dal punto di vista culturale, per i grandi Paesi produttori, di chiamare vino una bevanda che con il vino non c’entra nulla”.
E gli enologi, come la pensano? Il presidente di Assoenologi, Riccardo Cotarella, ha preferito glissare sull’argomento, aspettando di capirne di più, perché il tema, nei suoi aspetti tecnici, è complesso e spinoso. Per saperne di più, non tanto di questa possibilità su cui sta lavorando l’Europa, quanto di dealcolazione intesa come tecnica enologica, ma assolutamente non per produrre vini senza alcol, WineNews ha raccolto il punto di vista di Giuseppe Caviola, uno degli enologi di riferimento del panorama produttivo italiano, con consulenze importanti dal Piemonte (Damilano, Vietti, Borgogno, Fontanafredda) alla Sicilia (Feudo Maccari), passando per Toscana (Castiglion del Bosco, Terenzi, Tenuta Sette Ponti), Marche (Umani Ronchi), e di Valentino Ciarla, enologo consulente che segue, tra le altre, una delle griffe del Brunello di Montalcino, Le Chiuse.
“Volendo essere il più sintetici possibile - spiega Caviola - la dealcolazione è essenzialmente una filtrazione, a cartuccia o a membrana, che sottrae alcol al vino. Un’operazione che si rende necessaria quando arriviamo a concentrazioni di grado alcolico e grado zuccherino troppo alte, cosa che, con l’innalzamento dele temperature globali, accade spesso. Esiste poi la necessità, per certi mercati, di produrre vini meno potenti e più facili e beverini”.
Per come il mondo del vino l’ha intesa fin qui, la dealcolazione non nasce quindi per produrre vini senza alcol, anche perché, riprende Caviola, “è una pratica invasiva dal punto di vista organolettico, come una qualsiasi altra filtrazione: tutto quello che può essere una forzatura mi convince fino ad un certo punto, preferisco non usare filtrazioni troppo strette, in certe condizioni consiglio sempre di evitarle, per far sì che un vino esprima le caratteristiche di un vitigno e di un territorio, esaltando la materia prima e rispettandola in cantina, che poi è ciò in cui credo. Non ho esperienza nella dealcolazione, ma può essere una tecnica valida, a patto di non esagerare, almeno su determinati vini, per puntare a preservarne freschezza e bevibilità”
Nessuna preclusione a priori, quindi, alla possibilità di ricorrere alla dealcolazione, ma è una pratica che “va testato e capita, ed in caso da usare senza abusi, altrimenti ci si allontana dal concetto di vino legato a vitigno e territorio. Se parliamo di annacquamento, ci vogliono paletti precisi: come dealcoliamo? E di quanto? Può essere una tecnica che in determinate annate, calde e siccitose, e per determinate varietà, potrebbe aiutare. Cerchiamo di avere un approccio laico al tema, ma ci vuole sempre il buonsenso: l’importante è che non si vada a snaturare il vino stesso. Per i vini a denominazione, comunque, ci sono i disciplinari. Le esasperazioni, comunque, mi spaventano, dobbiamo capire fin dove possiamo spingerci, e se effettivamente andiamo a migliorare o meno qualcosa. Il rischio è l’omologazione, e sicuramente andando a dealcolare per più di un grado e mezzo, le caratteristiche organolettiche di un vino ne risulteranno irrimediabilmente alterate, per cui anche solo l’idea di chiamare vino un vino totalmente dealcolato mi pare del tutto fuori luogo”.
Sulla stessa linea di pensiero è Valentino Ciarla, che ci tiene a ribadire l’abisso che separa la pratica enologica dell’abbassamento della gradazione alcolica dalla produzione di vini senza alcol. Partendo da un presupposto tanto semplice quanto evidente: “Senza alcol secondo me non è vino”, dice Valentino Ciarla. “L’alcol, del vino, è una componente fondamentale, come le ruote per un’automobile. L’argomento è scivoloso, ma la dealcolazione totale esce fuori dal contesto del vino. Quella parziale, intesa come ritocco della gradazione alcolica, rimane una pratica enologica, rispetto alla quale esistono diverse scuole di pensiero. Abbassare di un grado il livello di alcol un vino è una tecnica enologica, una possibilità, ma dealcolarlo totalmente significa farlo diventare un’altra cosa, e allora così usciamo dall’enologia. Di certo, da un punto di vista commerciale, ha un suo mercato, per cui ha senso produrlo. E non finisce solo sui mercati arabi, ma anche su quelli occidentali, sempre più attenti alla salute, e più si va avanti e più buoni sono, ma nel processo di dealcolazione si perdono troppe componenti organolettiche per fare paragoni”.
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