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NÉ FILIERA CORTA, NÉ ENERGIE RINNOVABILI, NÉ SCUOLA DELLA LEGALITÀ: L’AGENZIA NAZIONALE PER L’AMMINISTRAZIONE DEI BENI SEQUESTRATI ALLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA BOCCIA LA PROPOSTA DELLA REGIONE TOSCANA, E LA TENUTA DI SUVIGNANO FINISCE ALL’ASTA

Nel 1994 la confisca della tenuta di Suvignano, nel comune di Monteroni d’Arbia, in provincia di Siena, fece un certo scalpore: con i suoi 713 ettari, di cui 600 coltivati a cereali e prato, una villa circondata da oliveti e cipressi, 13 coloniche, 3 centri zootecnici dove si allevano 2.000 ovini, 350 cinte senesi, fu l’azienda agricola più grande confiscata nel Centro Italia alla mafia. Da allora sono trascorsi 19 anni e, dopo un primo tentativo del 2009, sventato dall’allora prefetto di Siena Gerarda Pantalone, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati alla criminalità, è pronta a rimetterla all’asta, dopo aver bocciato il progetto della Regione, mortificando così i piani di un ventaglio di soggetti, dal Comune di Monteroni alla Regione e alla Provincia di Siena, fino alle associazioni Libera, Arci e Terra Futura, che per lungo tempo hanno sostenuto, con progetti concreti, la necessità di un gesto di valore simbolico, che restituisse al territorio e al movimento antimafia quanto strappato alla criminalità organizzata.
“Resto perplesso - racconta a Repubblica il sindaco di Monteroni Jacopo Armini - mi chiedo che segnale dia ai giovani uno Stato che per far cassa dice no ad un bellissimo progetto di recupero e legalità in cui erano pronti a spendersi tanti soggetti pubblici e associazioni. E poi, mettendo in vendita la tenuta, si rischia di restituirla ai capitali della criminalità. Il 10 gennaio - continua Armini - il governatore Rossi, il presidente della Provincia di Siena Bezzini ed io siamo stati dal ministro dell’interno Cancellieri per presentare il progetto della Regione, che prevedeva, in cambio del pagamento di un affitto simbolico, di affidare la gestione di Suvignano all’Azienda agricola regionale di Alberese, per realizzare un piano di valorizzazione economica poggiato su agricoltura, filiera corta, energie rinnovabili. Nei piani c’erano anche la creazione di una “scuola di legalità” e l’utilizzo di alcune coloniche per accogliere ragazzi disagiati e donne maltrattate. Il ministro sembrava pronta a dare l’ok”.
L’azienda, come ricorda Repubblica, era stata acquistata fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta dal costruttore palermitano Vincenzo Piazza. Nel 1983 Giovanni Falcone, sospettando rapporti dell’imprenditore con Cosa Nostra, sequestrò i suoi beni, inclusa la tenuta toscana, ma Piazza riuscì a farseli restituire. Nel 1994, però, fu arrestato proprio a Suvignano per associazione mafiosa, e nei successivi due anni i magistrati siciliani gli sequestrarono beni per 2.000 miliardi di lire, affidandoli a un amministratore giudiziario. Secondo le accuse, Vincenzo Piazza, un distinto gentiluomo, era l’immobiliarista di Cosa Nostra. Nel 2007, quando la sua condanna è passata in giudicato, i suoi beni sono stati definitivamente confiscati. Una storia che si è trascinata a lungo, troppo a lungo, fino ad un esito che lascia l’amaro in bocca e che secondo il sindaco di Monteroni è contrario al principio di legge che stabilisce il riutilizzo sociale dei beni confiscati. Il presagio che dietro le lungaggini e il limbo della burocrazia ci potesse essere un esito deludente su Suvignano, lo aveva avuto anche Roberto Saviano a fine aprile. “È un problema che andrebbe risolto” aveva detto a proposito della lentezza decisionale sulla tenuta senese. “I beni confiscati devono trovare una destinazione quanto prima perché ogni bene sequestrato e non riutilizzato è una vittoria delle organizzazioni. “O con noi o con nessuno”, “o le facciamo funzionare noi o lo Stato non è nemmeno in grado di assegnare ciò che sequestra”: ecco il messaggio che le organizzazioni fanno passare”.

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