15.000 ettari di vigneto già produttivo, a cui si aggiungeranno altri 3.000-4.000 in fase di rinnovamento, per una produzione, oggi, di 100 milioni di bottiglie, destinata a crescere del 20% nei prossimi 6-7 anni. Grazie ad impianti rinnovati e più produttivi, grazie ad investimenti per oltre 600.000 euro negli ultimi anni, ma anche alle possibili modifiche ad un disciplinare che “andrà smontato e ricomposto senza pregiudizi, mantenendo l’identità del vino e del territorio, ma anche pensando alle esigenze delle imprese e del mercato”.
Parola di Giovanni Busi, presidente del Consorzio del Vino Chianti, una delle denominazioni del vino italiano più grandi e famose nel mondo, riconfermato alla guida per il quarto mandato consecutivo, in via del tutto eccezionale. “Oggi il Chianti finisce per il 70% all’export, soprattutto in America, ed il 30% in Italia, che per noi è il mercato che cresce di più. Ma non basta - spiega Busi - perchè le vendite sono stabili, e questo non risponde agli investimenti che stiamo facendo. Le bottiglie si vendono, ma c’è un rallentamento della crescita, e visto l’aumento di produzione che arriverà proprio per il lavoro fatto nel vigneto, dobbiamo lavorare, abbiamo bisogno di un mercato che cresca, e anche di aprire nuovi mercati. Ma le prospettive sono buone. Asia e Sud America, dopo diversi anni di lavoro in promozione, iniziano ad apprezzare davvero i nostri vini, ed è il primo passo necessario per aumentare le vendite. Anche in Cina, dove il Chianti sta crescendo e viene riconosciuto come una denominazione importante. Dobbiamo continuare a lavorare, promuovere il territorio e farlo conoscere ancora di più”.
Ma tra i punti cardine del futuro, spiega Busi, c’è anche una revisione profonda del disciplinare di produzione della Docg chiantigiana, strutturale, e non legata alle contingenze. “Dobbiamo avere un vademecum semplice, chiaro e che non consenta scappatoie dovute alla poca chiarezza. Ci devono essere poche cose, ma limpide - sottolinea Busi - il che vuol dire anche sburocratizzare il linguaggio e quei passaggi che vogliono dire tutto e niente, da una parte. Dall’altra, dobbiamo riuscire a rimodulare alcune caratteristiche. Per esempio, c’è una gradazione minima delle uve che è intorno ai 10,5 gradi, che forse oggi è poco, sarebbe più opportuno portare le uve in cantina ad 11, 11,5 gradi. É solo un esempio, vanno riviste molte cose, e senza pregiudizi. Dobbiamo riprendere in mano il disciplinare, smontarlo tutto e ricomporlo, guardando quelle che sono le esigenze degli imprenditori, del mercato, rispettando ovviamente quelle che sono le caratteristiche del Chianti. Questo, per esempio, vuol dire che il Sangiovese non può andare al 20% della composizione, è il nostro vitigno principe, la maggior parte della base ampelografica deve essere il Sangiovese, non c’è ombra dubbio. Ma, per dirne uno, c’è tutto il tema dei nuovi vitigni resistenti da affrontare, dove c’è tutta una discussione sul fatto se si possono inserire nelle denominazioni o meno. E anche se la materia è di competenza del Ministero delle Politiche Agricole e della Regione, io credo che da una denominazione come il Chianti debba arrivare un segnale in questo senso. Dobbiamo ripartire da queste cose, perchè oggi, e come è sempre stato, il Chianti è una denominazione molto conosciuta, apprezzata, e deve esserlo sempre di più nel bicchiere. Perchè è dalla presenza e dalla qualità nel bicchiere che passano le vendite delle bottiglie da parte delle cantine”.
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