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OLIO: IL “MADE IN ITALY” SOTTO SCACCO DI FRODI E FALSI. E I NOSTRI PRODUTTORI FATICANO PER COSTI OPPRIMENTI E PREZZI NON REMUNERATIVI. CRESCE L’EXPORT, MA SPESSO SI VENDE UN PRODOTTO CHE VIENE SPACCIATO PER ITALIANO ...

Il nome dell’olio italiano è sempre più famoso nel mondo. L’export cresce di anno in anno, ma i veri problemi sono in Italia, dove diminuisce la produzione di olive -condizionata dai costi elevati- e aumenta la quantità di bottiglie a basso costo spacciate per oli di frantoio. Lo afferma la Cia - Confederazione Italiana Agricoltori. Le esportazioni di olio di oliva - come rileva anche l’Ismea, in un’indagine - crescono del 19% in 5 anni, passando dalle 290.000 tonnellate del 2006 alle 344.000 del 2010; ancora maggiore è l’incremento per l’extravergine che aumenta del 25% nello stesso periodo. Cifre che fanno dell’Italia il secondo esportatore al mondo, dopo la Spagna, di cui, tuttavia, soffriamo la forte competizione sul mercato internazionale.

“In casa”, però, il settore non gode di buona salute, come testimonia la diminuzione di produzione registrata dal 2004 a oggi. È sempre più frequente, infatti, l’abbandono delle terre dovuto - sottolinea la Cia - alla bassa redditività di questa produzione, fortemente condizionata da costi soffocanti e da una frammentazione aziendale molto elevata. Le 775.000 aziende olivicole distribuite lungo lo “Stivale” hanno una superficie media di appena 1,4 ettari e producono in media 500.000 tonnellate. Per questo motivo - afferma la Cia - è assolutamente urgente una strategia politica del “Sistema-Paese” orientata alla valorizzazione dell’intera filiera oleicola, che sappia promuovere tutte le fasi produttive, a cominciare dalla produzione di olive. Fondamentale in questo senso è puntare sull’aggregazione della produzione e dell’offerta, favorendo la formazione di organizzazioni di produttori.

Comunque, nonostante le condizioni poco redditizie dell’olivicoltura in Italia, dai campi del Belpaese proviene gran parte del fabbisogno interno (80%), che si aggira mediamente sulle 700.000 tonnellate l’anno, facendo dell’Italia il primo consumatore al mondo dell’alimento principe della dieta mediterranea. In realtà, però, importiamo molto di più di quanto necessario per soddisfare i consumi interni (la media degli ultimi tre anni è di 537.000 tonnellate, all’incirca quanto produciamo).

D’altra parte, l’import, più che al soddisfacimento del consumo interno, è orientato a sviluppare uno strano meccanismo teso a favorire l’export. In particolare, si introduce in Italia olio a basso costo, proveniente dai paesi mediterranei, soprattutto del Nord-Africa, per poi essere utilizzato per abbassare il prezzo alle nostre bottiglie e renderle più competitive sul mercato internazionale.

In questa complessa dinamica di import-export si inseriscono le numerose frodi, che minano il grande valore del nostro patrimonio produttivo, sempre più a rischio di contraffazione. Gli oli a basso costo - rimarca la Cia - vengono miscelati con l’olio “nostrano” per confezionare dei “blend”, bottiglie dal marchio italiano, ma di fatto contenenti un “mix” di oli di provenienze diverse, che abbassano il prezzo, rendendo l’olio più competitivo sul mercato internazionale. In questo modo si vende il “marchio Italia”, ma si compra un olio che italiano non è. Meccanismo questo, compreso molto bene dalle multinazionali spagnole che hanno acquistato uno dopo l’altro quasi tutti i marchi italiani, per vincere la concorrenza sui mercati internazionali.

Le strategie miopi che hanno portato a mettere sempre più a rischio il nostro prezioso patrimonio nazionale - conclude la Cia - vanno contrastate con una politica della “qualità” che metta al primo posto la territorialità e la tipicità del nostro olio, contrastando le frodi e tutti i tentativi di “diluire” le nostre bottiglie con prodotti di altra origine o con qualsiasi sostanza che ne alteri le proprietà e le caratteristiche organolettiche.

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