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OLIO & VINO, ECCELLENZE D’ITALIA PRIMA E DOPO LA CRISI”, OVVERO COSA È CAMBIATO NEGLI ULTIMI ANNI DI BURRASCA FINANZIARIA PER LE AZIENDE. ECCO IL LIBRO DI NICOLA DANTE BASILE CHE, PER 30 ANNI, HA RACCONTATO L’ITALIA AGRICOLA SU “IL SOLE 24 ORE”

Non Solo Vino
La copertina del libro di Nicola Dante Basile

La crisi finanziaria, economica e politica degli ultimi anni ha certamente cambiato tante cose, anche dal punto di vista del mercato del wine & food mondiale. Ma cosa è cambiato, in particolare, per l’Italia del cibo e del vino, che fa della qualità la sua linea guida? Per scoprirlo c’è “Olio & Vino, eccellenze d’Italia prima e dopo la crisi”, il nuovo libro di Nicola Dante Basile, giornalista che per 30 anni ha raccontato l’Italia agricola su “Il Sole 24 Ore”.
Nel volume edito da Dalai Editore Milano, in libreria da oggi e che sarà presentato ufficialmente a Vinitaly l’8 aprile, in una tavola rotonda a cui parteciperanno, tra gli altri, il direttore dell’European School of Economy Stefano Cordero di Montezemolo, e Carlos Santos presidente e ad Amorim Cork Italia, controllata dalla multinazionale portoghese Amorim, leader dei tappi di sughero.
Nel volume, si affrontano i segni che la crisi ha lasciato nelle imprese agricole più legate a vino e olio, due prodotti simbolo della tavola made in Italy. E, per gentile concessione dell’autore, WineNews vi propone in esclusiva alcuni passaggi dell’opera ...

... Bardolino, Chianti, Dolcetto, Montepulciano d’Abruzzo, Nebbiolo, Negramaro, Nero d’Avola, Nero di Troia, Prosecco, Sangiovese di Romagna, Soave, Trebbiano. Sono i nomi, in ordine alfabetico, dei vini risultati tra i più venduti in promozione dalle catene della distribuzione moderna nel solo mese di dicembre 2010. Lambrusco, Chianti, Montepulciano d’Abruzzo, Barbera, Nero d’Avola, Sangiovese, Chardonnay, Bonarda, Trebbiano, Merlot, Vermentino. Sono, nell’ordine, i vini più acquistati durante tutto l’anno dagli italiani che hanno fatto la spesa in supermercati, iper e centri commerciali, ovvero i canali attraverso i quali passa ormai più del 60% del vino destinato al consumo domestico. Il Lambrusco, con 20 milioni di bottiglie è così diventato il vino più acquistato dagli italiani che oltre a essere i maggiori utilizzatori al mondo di vini fermi (3,6 miliardi di bottiglie), si stanno spostando sempre più verso i prodotti frizzanti, con la domanda che corre a doppia velocità. Anzi a tripla cifra. E sì, perché gli analisti hanno osservato che, sulla base degli incroci tra denunce fatte dalle aziende produttrici e quelle delle catene commerciali, le vendite di vini frizzanti in Italia, che nel 2007 contavano appena 4 milioni di bottiglie, nel 2012 si attende di arrivare a 140 milioni. Come a dire di un incremento stratosferico del 3.400%, pari a un tasso annuo del 680%.
Nessun altro prodotto ha mai osato fare tanto. Tra il 1980 e il 2010, il sistema vitivinicolo nazionale (e mondiale) ha vissuto uno dei periodi di maggiore tormento della storia moderna. Momenti di feconda attività, alternati da altri meno propositivi, quando non anche fortemente penalizzanti all’impresa in sé e all’immagine stessa del prodotto. Eventi propri del settore, ma anche riconducibili a fenomeni congiunturali esogeni al sistema che attingono alla sfera del sociale, del costume, della cultura, dell’economia; e, va da sé, della politica nazionale e comunitaria per gli atti a essa confacenti.
E a proposito di Unione europea, come non dire della riforma Ocm-vino entrata in vigore il primo agosto del 2009, con la quale Bruxelles ha avviato un processo di rinnovamento del settore attraverso la riconversione dei vigneti, limitando per contro e in maniera progressiva il ricorso alle distillazioni. Ha anche avviato il ridimensionamento, su base volontaria, del potenziale produttivo, attraverso programmi di abbandono finanziati con premi all’estirpazione (175.000 ettari entro il 2012). Ha introdotto la pratica della cosiddetta “vendemmia verde” , ha mutuato lo schema già adottato per i prodotti Dop e Igp ai vini a denominazione di origine controllata e a indicazione geografica; e facendo questo ha concesso ai vini sprovvisti di un’indicazione territoriale l’opportunità di riportare in etichetta il vitigno e l’annata di produzione. Una salita di rango per la vecchia definizione del vino da tavola che ha alimentato non poche perplessità in quanti ritengono che, nei fatti, ciò costituisce un indebolimento dei disciplinari. Ma tant’è.
In questo contesto, il sistema vino Italia si muove lungo un sentiero che ha fatto della ristrutturazione un punto qualificante. Un percorso peraltro imboccato da tempo e che, per quanto non ancora concluso, annovera già non pochi risultati lungo tutta la filiera. Basti pensare agli anni di attività produttiva degli impianti viticoli, la cui età media tende a ridursi, come dimostra l’abbassamento dei 35 anni relativo ai decenni Sessanta-Settanta agli attuali 30. Anzi, nel 2010, e per la prima volta, l’anzianità delle vigne è scesa sotto questa soglia.
La stessa dimensione delle aziende è progressivamente aumentata, passando da un taglio medio di 0,7 ettari a fine anni Ottanta ai 2 ettari scarsi di oggi. Per non dire delle superfici in attività, ridottesi di mezzo milione di ettari, pari al 40% dell’area coltivata, nel 1990. Un settore solido, dunque, ma non per questo indenne da crisi. E quella di questi ultimi anni i vignaioli, al pari di tutti, l’hanno vissuta dall’inizio alla fine, con i valori delle uve compressi come non mai, con tagli in fase vendemmiale del 30, 40 e persino del 50% (fonte Cia). Non è andata diversamente per i listini dei prodotti a scaffale, sicché da un primo e alquanto ovvio ragionamento si sarebbe potuto pensare che questa poderosa piallatura avrebbe in qualche modo stimolato la domanda finale. Invece non è andata così. Rendendo il settore, almeno in apparenza, meno desiderato rispetto al tempo in cui - ma era solo ieri - lestofanti vestiti da finanzieri d’assalto, avidi speculatori, arrivisti, magnaccia, spudorati evasori hanno fatto a gara per accaparrarsi senza badare a spese anche modeste tenute agricole, con annessa cantina, in modo da potere esibire con orgogliosa mania una propria etichetta. Il tutto assecondato da trionfalistiche quanto dubbie corrispondenze mediatiche. Ah, le mode. Che danno stargli dietro ciecamente, quando l’aria cambia umore ...

Dal vino all’olio il passo è breve, anche perché nella pur oggettiva e naturale diversità, sono molte le similitudini che accomunano i due prodotti. A cominciare dal saliscendi della domanda che evidenzia una tendenza costantemente espansiva, con rottura del trend nell’ultimo lustro. Da 1 milione e 700.000 tonnellate scarse stimate a inizio anni Novanta, i consumi oltrepassano la soglia dei 2,8 milioni, accumulando un tasso medio di crescita del 3,8% annuo. Ciò detto, è importante il ruolo che anche in questo contesto ha l’Unione europea, dove si concentrata il 65% della richiesta mondiale di olio di oliva e dove si assiste nell’ultima parte del secondo millennio e primi anni del terzo a un continuo crescendo dei consumi, tanto da sfiorare 2 milioni di tonnellate nel 2004. Salvo assistere a una successiva inversione di tendenza, che allinea i volumi sui valori attuali di 1,8-1,9 milioni di tonnellate.
In questo contesto, l’Italia, che a metà anni Duemila spinge la lancetta della domanda fino a 750.000 tonnellate, accusa negli anni seguenti limature del 2-3% per fermarsi a quota 680-700.000 tonnellate. Ancora più accentuato in Spagna il divario tra la prima e la seconda parte del decennio Duemila, con un differenziale superiore all’11% a svantaggio della seconda e con i valori assoluti che oscillano intorno a 560mila tonnellate. È di 220.000 tonnellate invece il consumo della Grecia, che nella media degli ultimi anni ha accusato, causa la crisi a tutti nota, una contrazione prossima a 9,5 punti rispetto al periodo 2000-2005. In netta controtendenza la Francia, dove i livelli attuali, di poco inferiori a 110.000 tonnellate, rivelano nel medesimo arco di tempo un tasso di crescita a due cifre, mentre è abissale la differenza rispetto all’inizio degli anni Novanta, quando i cittadini dell’Ottagono consumavano meno di 30mila tonnellate di olio di oliva. Di pari vivacità la domanda in Germania e nel Regno Unito, sebbene la loro rispettiva incidenza non vada oltre le 50.000 tonnellate per anno. Mentre tra i Paesi terzi, decisa è la crescita che accompagna l’area nordamericana, in particolare gli Stati Uniti, dove nell’arco di venti anni gli impieghi di oli per uso alimentare di oliva sono triplicati, passando da meno di 90.000 tonnellate del 1990 a 260.000 attuali. E positive sono le proiezioni per i prossimi anni, orientate verso il consolidamento della fase espansiva, in un mercato che in termini relativi oggi rappresenta poco più dell’8%. Il che colloca gli Usa in terza posizione nel ranking mondiale, subito dopo Italia e Spagna e prima della Grecia. Quanto ai consumatori di ultima generazione, comincia ad avere un certo peso l’Australia, il Brasile e il Giappone. Insieme, i tre paesi totalizzano poco più di 100.000 tonnellate, ma è oltremodo significativo il fatto che la loro domanda sia più che triplicata rispetto a inizio secolo. E, intanto, all’orizzonte si affaccia la Cina …

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