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Panorama / Economy

Per un quartino di nobiltà. Ha liquidato tre cugini e un fratello, aprendo le porte dell’azienda a due fondi. Ma la famiglia, arrivata alla sesta generazione, mantiene saldamente il controllo. Ora tutti gli sforzi si possono concentrare sullo sviluppo, che passa attraverso una serie di acquisizioni nel Nord-Est. Per creare un gruppo di dimensioni adeguate al mercato … Che cosa succede quando la finanza entra nel business del vino? Sandro Boscaini è conosciuto nel settore come “il re dell’Amarone”: la sua azienda di famiglia, l’Agricola Masi, è la numero uno al mondo per la produzione di questo tipo di vino e ha un fatturato di circa 46 milioni di euro, che per l’88% è realizzato attraverso le vendite in 60 Paesi. La Masi sembra un gigante, ma è un nano, come quasi tutte le aziende del vino made in Italy, e Boscaini ha imboccato una strada che potrebbe essere seguita da molti colleghi. Liquidazione dei soci- parenti, ingresso nel capitale di fondi di private equity e l’obiettivo dello sbarco in Borsa entro i prossimi cinque anni.
Perché ha ceduto alle offerte dei private equity? Non avevo alternative. Arrivati alla sesta generazione bisognava scegliere: o una gestione autoritaria dell’azienda, oppure un’apertura all’esterno. Io non sono Benito Mussolini e ho preferito imboccare la seconda strada. I soldi incassati sono serviti a liquidare gli altri soci? Non solo. Noi abbiamo un problema di dimensioni ed entro i prossimi cinque anni dobbiamo raddoppiare il fatturato per reggere l’urto del mercato. I soldi, per un salto di questo genere, non li potevamo tirare fuori dalle casse della famiglia. È vero che il settore della produzione del vino in Italia è affollata da nani? È la malattia che può distruggerci. Da trent’anni giro il mondo per vendere vino e oggi non conti nulla se non hai almeno dai 3 ai 5 milioni di bottiglie da mettere sul mercato. I produttori italiani non sono in queste condizioni. Finora, però, si sono difesi con i prezzi alti. Il giochino non funziona più. L’offerta di buon vino, da tutto il mondo, ormai è consolidata: i marchi italiani non sono indispensabili e non possono tirare troppo sui prezzi. Quali sono i concorrenti più pericolosi per il vino made in italy? Australiani, californiani e innanzitutto spagnoli. La solita Spagna che ci surclassa. Già. Dieci anni fa non esistevano, oggi le aziende spagnole sono un modello per le dimensioni, per il rapporto tra qualità e prezzo, per la distribuzione e per il sistema-Paese che ha spinto il settore. Che cosa significa? Hanno speso con efficacia, e senza imbrogli, in fondi strutturali della Ue. Vada a vedere i loro vitigni, modernissimi e di grande qualità. Il conto lo ha pagato l’Europa. E noi? La frammentazione non ci ha aiutato neanche in questo senso: troppi particolarismi e finanziamenti a pioggia. Inoltre, per arrivare ai numeri che le ho detto bisogna entrare nei grandi canali della distribuzione internazionale. Supermercati di qualità, catene di ristoranti, duty-free, alberghi di lusso. Ma le Regioni spendono molti soldi per sostenere i loro prodotti. Sono spese assurde, senza alcun coordinamento. Da una parte l’Ice, dall’altra le Regioni e gli enti locali. In ordine sparso, come al circo. Quando vado all’estero e vedo la promozione del nostro vino, penso una sola cosa: che casino! Perché? Prenda uno dei nostri prodotti, il Valpolicella. E provi a capire quali bottiglie vengono sostenute dalla promozione. Quelle da 2 euro per i supermercati o quelle da 20 euro per i ristoranti di lusso? Si prende un nome, si butta nel mucchio e si gettano milioni di euro dalla finestra senza alcun risultato. Come pensa di orientare la sua crescita verso il raddoppio del fatturato? Voglio fare il polo del vino veneto. Non capisco. Il vino italiano non esiste, i nostri sono tutti prodotti regionali. E la nostra crescita avverrà attraverso delle acquisizioni nella regione veneta, quella dell’epoca della Repubblica di Venezia. Un progetto che piacerà a Umberto Bossi. Un progetto che deve piacere al mercato. La macroregione veneta alla quale penso comprende, a parte il Veneto, il Trentino e il Friuli Venezia Giulia. Vuole un numero? Soltanto nel Veneto si produce l’equivalente dell’80% di tutto il vino australiano. E la mia azienda, con appena 45 milioni di euro di fatturato, è già al sesto posto nella classifica dei produttori italiani. Qualcosa non quadra. Acquisizioni, dunque. Ha già una lista? Certo. Nomi, però, non posso farne. Mi dica la zona. I prossimi acquisti li faremo in Trentino, dove abbiamo trovato piccole aziende con un ottimo vino rosso strutturato. È quello che ci serve. Come pensa di vincere le resistenze dei piccoli indiani? Abbiamo un modello che sta funzionando molto bene: in Toscana siamo entrati in società con Pieralvise Alighieri, l’ultimo discendente di Dante, per produrre due cru vicino a Montalcino. Che cosa prevede l’accordo? Il gruppo Masi controlla la produzione e la gestione e gli Alighieri sono soci attivi. Finora l’intesa ha funzionato bene, e voglio riprodurla per formare il polo veneto del vino. Quali requisiti devono avere le aziende in cui pensa di entrare? Una lunga storia sul territorio e magari un marchio che fa capo a una famiglia nobile. L’aristocrazia italiana è molto seduttiva per i consumatori all’estero. Però, proprio in Veneto, non è riuscito a concludere il matrimonio con la Santa Margherita. Ne hanno parlato i giornali. Basterebbe questa intesa per raddoppiare li suo fatturato. Vero. Tra l’altro nel Triveneto ci sono tre aziende che hanno gli stessi prodotti, anche per qualità dei marchi: Masi, Bolla e Santa Margherita. Escluda Bolla, che ormai è nelle mani degli americani, e restiamo noi due. Un matrimonio sarebbe nella logica delle cose. Ci proverà? Per il momento ho altri programmi, ma quando gli azionisti della Santa Margherita vorranno aprire una trattativa, sono pronto a discutere. Lei esporta l‘88% della produzione. Ci sono nuovi mercati nel mirino? L’india. Mi ricorda il Giappone di qualche anno fa. È un mercato maturo per grandi acquisti del vino made in Italy: bisogna solo studiare il giusto canale distributivo. E la Cina? Sono meno ottimista. Sono appena rientrato da un viaggio in Cina e ho visto ottimi vigneti. Ormai il vino lo sanno fare. Manca una cultura al consumo, l’idea di abbinare ciascun vino a un cibo: e non credo che questo salto lo faranno presto. Torniamo all’operazione con li private equity, Lei, come dicevamo, ha anche liquidato i soci. Eravamo in sette: quattro fratelli e tre cugini. Troppi. Anche perché, per i prossimi anni, bisognerà crescere e quindi non ci sono dividendi da intascare. Chi sono i parenti che hanno venduto? I cugini Dario, Roberto e Giuseppe, e mio fratello Sergio. È vero che hanno incassato qualcosa come 20 milioni di euro? Per la verità le loro quote sono state valutate più del doppio. Dove nasce la sua amicizia con Alessandro Profumo? Più che un’amicizia, è un rapporto di lavoro. Unicredit è la banca che finanzia il nostro debito e crede nel nostro progetto. Un piano che piace a Profumo. È un banchiere che ha capito perfettamente il vicolo cieco nel quale rischia di infognarsi il settore vinicolo italiano. E per favorire il salto verso un modello di aziende glocal, Profumo ha sostenuto la crescita delle cantine Masi. Adesso, dopo l’ingresso dei fondi, chi controlla le cantine Masi? Una quota del 28,5% è nelle mani di due fondi controllati dal gruppo Sanpaolo Imi e il resto è diviso in tre parti uguali. La mia e quelle dei fratelli Bruno e Mario. Anche loro lavorano in azienda? Non hanno incarichi operativi. Bruno è un ingegnere, e soltanto adesso seguirà la parte logistica del gruppo. Mario, invece, è l’agente del gruppo Generali per Verona Sud. La famiglia, quindi, ha ancora saldamente il controllo della società. Assolutamente. Intanto è sbarcata la settima generazione. Ho tre figli, tra i quali Marcella preferisce fare la veterinaria a Mantova. Gli altri due sono invece in azienda: Alessandra si occupa della parte commerciale e Raffaele è il responsabile del controllo della qualità. Poi ci sono i ragazzi dei miei fratelli, che però sono ancora giovani. Come pensa di reggere all’urto delle nuove generazioni? Ho cinque anni di tempo per risolvere il problema. Con quali soluzioni? L’accordo con i fondi è molto chiaro. Ci sono tre possibilità, che scadono tra cinque anni. La prima è che la famiglia ricompri la quota dei fondi, a un prezzo i cui parametri sono già fissati. La seconda possibilità è lo sbarco in Borsa. E la terza? Si vende tutto. Noi e loro. Lei quale ipotesi preferisce? Tutte tranne la terza. Non ho mai voluto vendere l’azienda di famiglia e semmai penso che un giorno comprerò anche le altre quote.

Sandro Boscaini. Commendatore nel vigneto
In azienda dal ‘64.
Sandro Boscaini è entrato alla Masi 42 anni fa. La presiede dal 1978 ed è a capo della holding Terre, Vigne e Vini. Suo, negli anni 60, il progetto di Vinitaly.
Una Fondazione. Nel 2000, Boscaini ha promosso la Fondazione Masi per la salvaguardia e la diffusione della cultura veneta e del vino. Sono anche i principi ispiratori del premio Masi, alla 25esima edizione.
L’onorificenza. Insignito nel 2003 del titolo di commendatore, Boscaini è stato riconosciuto Imprenditore dell’anno nel 2004 da Ernst & Young.

Da Verona alla Pampa nel nome di Bacco
Masi si trova nell’omonima valle nei pressi di Verona. Acquistata sul finire del ‘700, è rimasta patrimonio degli eredi per sei generazioni. Il produttore ha ampliato il raggio d’azione grazie ad acquisizioni, come quella delle tenute dei conti Serego Alighieri, di proprietà della famiglia del Poeta e risalenti al 1353. La società ha rilanciato la tradizione vinicola della Valpolicella grazie a vini come Recioto e Amarone. Boscaini-Masi è un fenomeno da esportazione: l’88% della produzione finisce in 60 nazioni (il 45% in Nord America). In Argentina controlla i vigneti di Tupungato (Mendoza). Nel Triveneto può contare su 920 ettari in produzione. I ricavi 2005 hanno raggiunto quota 46,5 milioni.
Autore: Antonio Galdo

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