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Perché certi sapori ci conquistano, e perché è tanto difficile ricreare un qualsiasi piatto della nonna pur seguendo passo passo la sua ricetta? Domande che sembrano banali, ma che portano a risposte complesse, che coinvolgono la neurobiologia

Perché certi sapori ci piacciono così tanto, e perché è tanto difficile ricreare un qualsiasi piatto della nonna pur seguendo passo passo la sua ricetta? Domande che sembrano banali, ma che portano a risposte complesse, capaci di coinvolgere una branchia della scienza complessa come la neurobiologia, ed uno dei suoi più illustri rappresentanti, il professor Gordon Shepherd, che insegna proprio neurobiologia alla Yale School of Medicine, è stato direttore del “Journal of Neuroscience”, e di recente poi ha scritto un libro che per alcuni è alla base di una nuova disciplina scientifica: si intitola “Neurogastronomy”, ovvero come il cervello crea i sapori. Secondo Shepherd, come si legge nella’edizione italiana del magazine Usa “Wired” (www.wired.it), “circa l’80% di questo sapore lo dobbiamo all’olfatto e non propriamente alle papille gustative. Certamente, poi, ogni volta che assaporiamo una pietanza entrano in gioco la vista, il tatto e l’udito: proprio un italiano, Massimiliano Zampini, aveva provato nel 2008 che la percezione della fragranza, e quindi della bontà, delle patatine può essere fortemente alterata solo modificando il suono prodotto dalle mascelle durante la masticazione (studio che gli valse un IgNobel, il premio alle scoperte scientifiche più inutili). Anche le aree legate alla memoria, alle emozioni, alla motivazione, al linguaggio e all’aspettativa sono chiamate in gioco, per dirci che sapore ha quello che stiamo mangiando”.
“La creazione del sapore- spiega lo scienziato, che sta cercando di modellizzare i microcircuiti neuronali coinvolti - richiede più cervello di quanto non facciano molte altre attività: c’è la spinta a mangiare, il ricordo delle sensazioni, l’emozione legata a ciò che ci piace o che non ci piace, il senso di gratificazione: differenti parti del cervello collaborano insieme. Come è facile capire, il sapore e la qualità non risiedono solo nei cibi, e siamo solo all’inizio del viaggio che ci può portare a comprendere meglio perché alcune persone sviluppino una dipendenza”. Forse è per questo che non si riesce quasi mai a copiare il ragù della nonna, anche se gli ingredienti sono identici e si usa persino la stessa vecchia padella. “Mentre la nonna cucina e mentre si apparecchia la tavola, il cervello comincia a essere condizionato dall’aspettativa del sapore che si sta per creare, e quando ci sediamo e arriva la pasta, le aree che coinvolgono la memoria, l’aspettativa, le emozioni e il linguaggio sono già attivate”.
“Se parliamo specificatamente del gusto (e non di sapore), di base - continua Shepherd - consideriamo 5 caratteristiche: dolce, salato, amaro, aspro e umami. Ogni gruppo umano può aver sviluppato delle preferenze per alcuni gusti, trasmettendole, culturalmente, di generazione in generazione, e oggi possiamo chiederci quanto siano differenti per le diverse popolazioni.
Ma quante differenze possono insorgere quando pensiamo all’olfatto, che coinvolge centinaia di tipi diversi di recettori e la sensibilità a migliaia di molecole?”. Si arriva così al junk food: “il cibo spazzatura agisce nel cervello proprio come fanno le droghe. Attraversando l’aeroporto sono stato bombardato dalle immagini invitanti di salami e dolci. Dov’erano le verdure? E intanto i giornali sono pieni di statistiche sull’obesità infantile e problemi di salute legati al cibo. La colpa non è certo dei bambini. Metti un piatto di patatine e uno di broccoli davanti a ragazzino e sceglierà le chips, ma cosa farebbero i genitori? Siamo di fronte a una sfida che spesso si combatte solo nelle mense delle scuole: quella di una rieducazione alimentare che richiederà molto tempo”.

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